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di Jean-Léonard Touadi

Può l’Africa essere prigioniera delle sue ricchezze naturali? Che cos’è successo perché le abbondanti ricchezze del suolo e del sottosuolo siano diventate la “maledizione” dei popoli che abitano quei territori?

La storia politica ed economica del continente si snoda intorno alla contesa per le sue ricchezze. Sin dal primo sistema economico mondiale del capitalismo mercantile, al continente africano è stato assegnato il ruolo esclusivo di serbatoio di materie prime di natura minerale e agricola. In realtà il capitalismo mercantile sfrutta innanzitutto la “merce umana” costituita da milioni di schiavi deportati verso le Americhe per valorizzare le “nuove terre”. Nel suo bellissimo libro intitolato L’Africa e la nascita del mondo moderno, Howard W. French fa un resoconto dei conflitti tra regni europei per il controllo delle ricchezze africane che hanno posto le basi del mondo moderno. Il ruolo delle ricchezze africane nell’ascesa dell’Europa come potenza mondiale si fa ancora più pregnante con la rivoluzione industriale, quando l’accresciuta capacità produttiva della macchina a vapore necessita di ingenti quantità di materie prime.

Il capitalismo si fa imperialismo alla ricerca di risorse naturali in grado di alimentare le catene produttive dei Paesi della rivoluzione industriale. È possibile leggere la storia dell’occupazione coloniale come un gigantesco meccanismo di usurpazione economica delle ricchezze africane. L’economia coloniale è essenzialmente un’economia strutturalmente di predazione a danno di territori subalternizzati a vantaggio delle economie egemoni delle potenze occupanti. Solo tenendo conto di questa natura intrinseca dell’economia coloniale si può comprendere l’urgenza della rivendicazione dei Paesi sotto tutela coloniale di un “nuovo ordine mondiale dell’economia”, in grado di restituire ai territori colonizzati la soggettività economica attraverso la gestione delle loro risorse interrompendo la multisecolare economia predatoria.

L’emancipazione politica passava dunque per la riappropriazione della sovranità sulle risorse naturale per inventare un oikos nomos africano, ossia l’economia della buona conduzione della casa, rivolto ai soggetti indigeni (nel senso letterale di persone del luogo) e ai loro interessi. Le logiche della guerra fredda, il neocolonialismo delle potenze occidentali e l’incapacità dei leader africani di modificare radicalmente il modello economico coloniale hanno finito per perpetuare l’economia di predazione nel continente. In questo modo – faceva notare lo storico Ki-Zerbo – i Paesi africani hanno conosciuto una tragica continuità di modello economico dal XVI secolo ai nostri giorni. Sempre e comunque serbatoi di materie prime. Da qui la maledizione delle risorse naturali che tante guerre hanno alimentato in Congo (dall’uccisione di Lumumba ai conflitti del Kivu di oggi passando per la secessione del Katanga); in Angola tra l’Mpla che controllava durante la guerra civile il petrolio e l’Unita che si finanziava con i diamanti; in Liberia e nel conflitto sudanese di oggi dove, ancora una volta, le miniere d’oro sono al centro delle rivalità tra gruppi militari opposti.

Anche senza evocare la tragicità delle guerre con il loro corteo di morti e devastazioni umane e materiali, le risorse naturali rimangono una maledizione per i popoli e i territori. Ma cos’è la maledizione delle risorse?

Secondo Gilles Carbonnier, specialista di economia dei conflitti, per maledizione delle risorse, o delle materie prime, si intendono tutte le ripercussioni negative associate al loro sfruttamento. Se generalmente si presume che l’abbondanza di risorse minerarie e biologiche generi ricchezza e sviluppo, talvolta è vero il contrario, soprattutto quando una singola materia prima è presente localmente in quantità molto elevate (gas, petrolio, diamanti, argento, rame, ecc.). Alcune aree ben dotate di risorse si sono effettivamente sviluppate, almeno in termini di crescita economica (non sempre in termini umani), altre invece hanno visto peggiorare la propria situazione. Il settore energetico, per esempio, può rappresentare una quota così elevata delle entrate fiscali e delle esportazioni totali di un Paese, da ostacolare lo sviluppo di altri settori di attività e quindi la diversificazione della produzione.

La cosiddetta sindrome olandese si riferisce al modo in cui altri settori dell’economia possono subire una flessione a causa delle rendite estrattive. L’elenco dei possibili effetti negativi dello sfruttamento di una risorsa è lungo: monopolizzazione da parte di un gruppo sociale, corruzione e declino della democrazia, esacerbazione dei conflitti armati, sia interni (tra gruppi etnici o religiosi, ecc.) sia esterni (destabilizzazione dei vicini), finanziamento di gruppi mafiosi o terroristici, distruzione dell’ambiente, indebolimento delle comunità locali e della capacità delle popolazioni indigene di preservare il proprio territorio o il proprio stile di vita, ecc.

La Rd Congo e i suoi diamanti, la Russia (o l’Alaska) e i suoi idrocarburi, il Ciad o il Niger e il loro uranio, la Nuova Caledonia e il suo nichel possono tutti essere considerati colpiti da questa “maledizione”, anche se in misura diversa. Non che le risorse non portino ricchezza, ma la ricchezza può alimentare processi negativi per l’ambiente e le popolazioni locali, senza reali benefici in termini di giustizia sociale e sviluppo umano a compensare i danni. Più in generale, la maledizione delle risorse solleva la questione del modo estrattivista in cui opera l’economia capitalista, in cui l’ambiente non ha valore se non come merce da sfruttare.

Durante la guerra fredda, il pensiero dominante era che l’abbondanza di risorse naturali fosse un potente vettore di sviluppo. Ci si aspettava che gli investimenti diretti esteri nel settore estrattivo e i proventi delle esportazioni contribuissero ipso facto allo sviluppo economico, in linea con le teorie secondo cui l’afflusso di capitali era la chiave di volta delle strategie di sviluppo. Alcuni economisti eterodossi, invece, vedevano in questo fenomeno una fonte di disuguaglianza e di sottosviluppo. Tuttavia l’ortodossia è cambiata alla fine degli anni Ottanta: una recente revisione della letteratura sulla “maledizione delle risorse naturali” evidenzia l’impatto negativo delle risorse naturali nei Paesi in via di sviluppo su tre fronti: la performance economica; il rischio di guerra civile; il funzionamento delle istituzioni e della governance.

Nei Paesi che traggono grandi rendite dallo sfruttamento delle materie prime, la maggior parte delle popolazioni spesso sprofonda nella povertà e nell’insicurezza. Un altro paradosso è che i governi che beneficiano di maggiori entrate dallo sfruttamento del petrolio tendono ad aumentare i loro deficit di bilancio. I decisori politici si impegnano in una spesa pubblica eccessiva, peccando di ottimismo, quando non stanno semplicemente dirottando la rendita a proprio vantaggio nell’interesse dell’arricchimento personale o del clientelismo politico.

Nello scorso giugno il Senegal è diventato Paese produttore di petrolio. Le ricadute finanziarie sono stimate in 20.000 miliardi di franchi Cfa in trent’anni (30,5 miliardi di euro). Situato a un centinaio di chilometri a sud di Dakar, il giacimento di Sangomar, in passato conosciuto come Sne, è particolarmente profondo. Le sue riserve sono stimate in 2,5 miliardi di barili di greggio, con una capacità produttiva tra i 100.000 e i 120.000 barili al giorno. Una sfida, per i nuovi dirigenti del Paese: fare del petrolio una benedizione. Per riuscirci, i leader dovranno smettere di essere politici offshore più vicini ai pozzi di petrolio che ai loro popoli.

 

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