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La candidatura di Vermiglio’ di Maura Delpero come film designato dall’Italia per concorrere agli Oscar è un segnale importante, per molti motivi. Perché sottolinea talento e coraggio di una regista donna dalle idee molto chiare. Perché è un film diretto da una donna che racconta una storia di donne intrepide, tenaci, resilienti. E perché è un film girato, coraggiosamente, in dialetto trentino, con un cast fitto di attori “non attori”, volti veri, antichi, presi dalle valli in cui il film è ambientato.

‘Vermiglio’: il successo a Venezia e nelle sale 

Scelte che possono sembrare impopolari, che non garantiscono un atterraggio “morbido” nelle sale, ma che sono un segnale del rigore e della coerenza di chi quel film lo ha voluto, lo ha pensato, lo ha realizzato. Girando in mezzo alla neve, con una bimba al fianco nata da pochi mesi.

Abbiamo incontrato Maura Delpero a Venezia, all’indomani della Mostra del cinema che le ha consegnato il Leone d’argento, Gran premio della giuria presieduta da Isabelle Huppert. Era in partenza per Toronto, dove ‘Vermiglio’ ha avuto la sua prémière internazionale. Nel frattempo, il film è uscito nelle sale italiane, giovedì scorso, entrando subito in top ten, e spingendo il distributore Lucky Red a triplicare il numero di quelle in cui il film è proiettato. Maura Delpero ha 48 anni, è nata a Bolzano, e il suo apprendistato lo ha compiuto da sola, con una telecamera comprata in proprio, imparando a fare documentari, a lavorare con le immagini. Come ha iniziato a fare cinema? “La grande folgorazione avvenne alla Cineteca di Bologna, dove mi affacciai un giorno per non staccarmi praticamente più”, dice. “Vidi i film di Bergman, di De Sica, di Olmi, di Haneke, di Tarkovskij, in una sorta di corso accelerato di storia del cinema. E decisi che la mia vita, in qualche modo, dovesse avere a che fare con le immagini”. Non una scuola ufficiale, ma un apprendistato individuale al cinema. “Esatto. Ho un forte amore per la realtà, credo che molto del cinema più interessante venga dal documentario. Mi sono comprata una camera e ho cominciato a girare. Ho fatto tanti errori, perché ho imparato tutto da sola. Ma proprio quegli errori mi hanno formata”. ‘Vermiglio’ affonda la sua storia nella Val di Sole, in una comunità che vive chiusa fra i monti del Trentino, alla fine della Seconda guerra mondiale. Una delle donne protagoniste scopre di avere avuto un marito bigamo. E si ritrova addosso tutto il peso di una maternità irregolare, “indegna”, e della vergogna. Come se fosse colpa sua… “Il film è ambientato nel 1944, ma ci vorrebbe, oggi come allora, un passo avanti della società. Molte cose sono cambiate, ma le donne sono ancora, in troppi casi, lasciate da sole”. Delpero vive fra l’Italia e l’Argentina, dove nel 2019 ha girato il suo primo film, ‘Maternal’, premiato al Locarno film festival. Che differenze ha riscontrato, fra Italia e Sudamerica, riguardo al cinema, e alle donne nel cinema? “In Argentina la proporzione fra uomini e donne registe è ormai paritaria, mentre in Italia siamo ancora indietro. L’Italia è, come sempre, più pigra nel percepire i cambiamenti. Il cinema è sempre stato, fino ad ora, appannaggio di figure maschili, bianche. Se rimanesse al mondo soltanto una videoteca e arrivasse un marziano, penserebbe che siamo tutti ricchi, bianchi, e con delle belle grandi automobili. Molto deve cambiare: e riguardo alla parità dei sessi, pensiamoci un attimo: abbiamo visto per tutta la vita film con figure maschili protagoniste, e non abbiamo mai detto ‘è un film maschile’. Se c’è una donna o un gruppo di donne, diciamo che è un film ‘femminile’. Ma perché? Dovremmo parlare solo di un film”. Lei ha girato “Vermiglio” con una bimba di pochi mesi al fianco. Come è andata? “Non facilissimo, se si pensa che abbiamo girato con la neve, con muli ed altri animali, con tanti attori non professionisti. E con la bimba da guardare. È andata bene, ma penso che ci vorrebbe uno scatto della società, un pensiero serio, da parte di tutti, su come non lasciare da sole le donne quando hanno figli piccoli”. Si parla sempre di film “facili” e “difficili”. Lei ha avuto coraggio, e ha voluto che il suo film fosse girato in dialetto, e con molti attori non professionisti, facce “vere” della val di Sole. È stato difficile imporre queste scelte? “Credo che siano questi film, quelli in cui si rivela l’importanza dei contributi dello Stato. Perché, se non ci fosse stato un finanziamento pubblico, sarebbe stato impossibile rischiare così tanto, e avremmo dovuto necessariamente ricorrere a qualche volto più noto, più ‘facile’, e avremmo dovuto girare in un italiano standard. In poche parole, il film avrebbe perso la sua natura”. Teme che un film girato in dialetto possa essere “difficile” in prospettiva della lunga selezione per gli Oscar? “Giuseppe Tornatore, che era in giuria a Venezia, mi ha detto: ‘Maura, stai tranquilla. Il tuo è un film internazionale, lo hanno compreso tutti’. Io spero che sia così”. A questo punto della sua carriera, quali obiettivi si prefigge? “Non ho mai avuto l’ansia della carriera, di essere scelta da una grande casa di produzione. Il mio è sempre stato un percorso sui generis: ho sempre lavorato a testa bassa solo per poter continuare a lavorare. Un lavoro che mi stanca da matti, ma è la mia vita”.

La candidatura dell’Italia agli Oscar

Vermiglio inizia adesso la sua lunga strada verso gli Oscar. La speranza è che finisca nella shortlist di quindici film provenienti da tutto il mondo, che verrà rivelata a metà dicembre, e poi nella cinquina dei candidati finali, che sarà diffusa a metà gennaio. La categoria si chiama International Feature Film, ed è quella che un tempo veniva detta “Miglior film straniero”, cioè non girato in lingua inglese. L’ultima vittoria italiana è stata nel 2014, con ‘La grande bellezza’ di Paolo Sorrentino. Che è proprio il grande escluso di quest’anno, quando al suo ‘Parthenope’ – forte di una grande distribuzione americana, la A24 – è stato preferito il piccolo film di Maura Delpero.

 

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