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diDonatella Tiraboschi

In cinque anni si è passati da sedici a due allestimenti. La Lista Pezzotta: meglio valorizzare le aree periferiche

Parafrasando un vecchio successo di Raf («Cosa resterà di questi anni ’80?»), alla vigilia dello smantellamento, ci si potrebbe chiedere cosa resterà di questa quattordicesima edizione de «I Maestri del Paesaggio». Quale lascito partecipativo alla città? Quale messaggio «green» alla collettività? Quale eredità di pensiero per una kermesse che in 14 anni ha coinvolto oltre 2 milioni di visitatori? Non c’è dubbio che i professionisti del settore — che lo scorso venerdì hanno partecipato all’International Meeting o ai vari seminari del festival (pagando ticket da 180 euro + Iva) — se ne saranno già tornati a casa con un bagaglio di conoscenze in più. In quest’ottica, l’obiettivo preannunciato dal presidente di Arketipos, Vittorio Rodeschini («Vogliamo fare cultura del paesaggio, lavorando sulla formazione ad alto livello») potrà dirsi centrato, ma va da sé che il cambio di rotta dell’evento risulta evidente.

I Maestri del paesaggio: due allestimenti

Senz’altro meno «popular» e diffuso rispetto al recente passato. A dirlo, ancor prima del sentiment percepito, sono i numeri. Benché Rodeschini abbia dichiarato come «Siamo felici di fare allestimenti in città perché significa coinvolgere una collettività maggiore», gli allestimenti, il cuore più visibile del festival, sono stati due, uno al Lavatoio, a cura di uno sponsor, e l’altro in Piazza Vecchia, contro i 16 che solo cinque anni fa avevano caratterizzato l’evento (10 in Città Alta e 6 in quella bassa). Sempre nell’edizione del 2019, una delle più riuscite per flussi e partecipazione, erano stati messi a terra 89 progetti con 198 appuntamenti, a fronte di una partecipazione organizzativa corale fatta di studenti (140 stagisti provenienti da 7 istituti scolastici del territorio e 11 studenti internazionali) oltre a 12 volontari provenienti da tre nazioni e 150 partner coinvolti. Non solo, alle iniziative educational, ai convegni, ai seminari, e workshop, in arrivo da 20 nazioni e 5 continenti, si contarono 2.500 partecipanti. Il panel di eventi di quest’anno, oltre ai 4 specialistici a pagamento (che peraltro figuravano anche nel 2019), ne ha contati, forniti dall’organizzazione, 14 (bollando come «evento» anche la conferenza stampa di presentazione del bilancio di sostenibilità della Camera di Commercio), mentre di tutto quell’«esercito» di ragazzi pronti a informare il pubblico non è rimasta traccia.




















































L’opera di Catherine Mosbach

Per dare vita e forma alla Green Square di Luciano Giubbilei, sempre cinque anni fa, erano state portate in Piazza Vecchia 12 mila piante di 36 specie, espressamente prodotte per aderire in toto ai desiderata del progettista. Che in quanto tale, seppur in veste green, è da considerare un artista. Potrà piacere oppure no il risultato finale, ma il trasferimento dall’idea progettuale all’allestimento reale, dev’essere rigorosamente a servizio del concept di chi l’ha pensato, sia dal punto di vista botanico che da quello concettuale. Un compito che generalmente si accolla un «direttore artistico», il ponte perfetto tra chi pensa e progetta e chi fa e mette a terra (e che una manifestazione di questo calibro dovrebbe annoverare e, invece, non ha). Ora, senza giudizi estetici (della serie ti piace oppure no?) e al netto dello «sfalcio» da parte della Sovrintendenza di alcuni elementi originariamente previsti, sono stati molti a chiedersi se questo allestimento di Piazza Vecchia, elemento che resta centrale, abbia reso, con concreta aderenza, l’idea di Catherine Mosbach. I vasi bianchi, le decine di rudbeckie spelacchiate, altre piante ripiegate su se stesse e non autoctone e pioniere, sono gli elementi che la progettista francese voleva per dare vita a quella che doveva rivelarsi come «un’esperienza sensoriale unica, capace di stimolare una profonda riflessione sulla relazione tra il corpo umano e gli elementi naturali?».

Pezzotta e Deleuse Bonomi: ordine del giorno

Se moltissimo del festival è cambiato, a restare pressoché identici sono i contributi pubblici, oggetto di un ordine del giorno, a firma del consigliere della lista civica Pezzotta Sindaco, Antonio Deleuse Bonomi. Il Comune di Bergamo ha contribuito alla manifestazione (del 2023) con la corresponsione dell’importo di 47 mila euro «e non si ha motivo di dubitare che anche per la manifestazione in corso verrà erogato un contributo di pari importo o similare», scrive il consigliere. Bilanci (pubblici) alla mano si scopre che anche nel 2019 Palafrizzoni erogò 47 mila euro, altri 46 arrivarono dalla Camera di Commercio e 25 mila dalla Regione, per un totale di 118 mila euro (pari al 21% dell’impegno totale di spesa dell’evento). E a 117 mila euro ammontano i contributi pubblici del 2023, oltre al Comune, la Camera di Commercio 30 mila e la Regione, salita a 40 mila. È sulla valutazione e quantificazione, in chiave di una fruibilità pubblica e di una rivitalizzazione e riqualificazione di altri luoghi della città, che Deleuse Bonomi impegna il sindaco e la giunta. In sintesi, la tesi del consigliere è che Città Alta non necessiti di essere maggiormente attrattiva e il contributo pubblico, in denaro e nella concessione gratuita di spazi, dovrebbe valorizzare semmai altre zone periferiche di Bergamo, lasciando sul territorio allestimenti verdi permanenti. Già stasera (lunedì 23 settembre), in Piazza Vecchia, del Festival non ci sarà più traccia. A far riflettere sul tema «Facing the crisis» ed emergenza climatica, resteranno, più che le piante verdi di Città Alta, gli argini del Morla. 

23 settembre 2024 ( modifica il 23 settembre 2024 | 07:53)

 

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