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La ricerca di un acquirente privato per l’ex-Ilva di Taranto da parte del Governo Meloni dimostra quanto sia radicata, nella cultura politica italiana, la convinzione dell’inefficienza del settore pubblico e il ricorso alle privatizzazioni. Il Governo Meloni intende accelerare su questa linea, prevedendo incassi nell’ordine dei 20 miliardi. Ciò nonostante la difesa dichiarata dell’italianità delle imprese (dalla quale discende, peraltro, l’inedita nuova denominazione del Ministero del Made in Italy).

Il ricorso alle privatizzazioni appartiene a un sentire comune del ceto politico, quasi mai messo in discussione, che segue una prassi ripetuta dall’ormai lontano 1992, viene motivata con due ragioni: la gestione privata di un’impresa è sempre più efficiente di quella pubblica e la cessione a operatori privati consente di recuperare risorse per ridurre il debito pubblico.

Si tratta di convinzioni che la letteratura economica più recente mette seriamente in discussione, su due aspetti: la quantificazione del contributo delle privatizzazioni alla riduzione del rapporto fra debito pubblico e Pil; l’apporto delle imprese privatizzate alla crescita economica italiana mediante il loro contributo alla produzione di innovazioni. Per quanto riguarda la prima questione, gli studi sul tema rilevano due dati: in primo luogo, l’Italia è, fra i Paesi Ocse, quello che ha privatizzato di più (160.000 miliardi di euro dal 1985 al 2000); in secondo luogo, il debito pubblico italiano, misurato in rapporto al Pil, è passato da valori che oscillavano intorno al 90% alla fine degli anni Ottanta al 137.30% nel 2023, con previsione di ulteriore aumento da parte dell’Istat nel 2024. In valore assoluto, il debito pubblico nel 2024 ha raggiunto il suo valore in assoluto più alto, pari a circa 3 miliardi attuali (+0.9% rispetto al 2023). Da ciò discende una prima conclusione: le privatizzazioni non hanno contribuito al risanamento dei conti pubblici né nel breve né nel lungo periodo. A fronte di incassi previsti per molte decine di miliardi dal Def 2013 al Def 2019, ne risultano effettivamente realizzati a regime solo per poco più di 16 miliardi (per una valutazione degli effetti delle privatizzazioni di questo Governo, si veda: https://osservatoriocpi.unicatt.it/ocpi-pubblicazioni-le-privatizzazioni-del-governo-meloni). Si è, dunque, trattato, nella stragrande maggioranza dei casi, di «svendite». Con riferimento al nesso fra privatizzazioni, ricerca scientifica e sue applicazioni industriali, al contributo delle imprese privatizzate alla ricerca scientifica e alle sue applicazioni, si possono considerare questi elementi di valutazione di ordine generale.

L’impresa pubblica, innanzitutto per il non avere istituzionalmente l’obiettivo del profitto di breve periodo, tende a essere più innovativa di una medesima struttura una volta privatizzata. Questo soprattutto a ragione del fatto che la privatizzazione si attua in regime di monopolio o oligopolio, data anche l’elevata e crescente concentrazione industriale che caratterizza il capitalismo contemporaneo, e, dunque, di basso o nullo incentivo privato a realizzare profitti migliorando la qualità del prodotto o del servizio. Come documentato nelle ricerche sulla Storia dell’IRI, dall’inizio degli anni Sessanta al 1980, il contributo di questa holding alla R&D italiana costituì, in media, oltre il 70% del complesso della spesa in ricerca e sviluppo del complesso delle imprese italiane. IRI, inoltre, generò l’aumento della diversificazione della produzione che, ancora oggi, caratterizza la produzione e l’export italiano.

Le imprese privatizzate tendono a comportarsi secondo logiche di «breve-periodismo» e predatorie, mancando loro quello che viene definito il «capitale paziente» – la lungimiranza che può avere l’operatore pubblico, agendo senza l’obiettivo del profitto – necessario per realizzare innovazioni (per una ricognizione della recente esperienza italiana, si veda: https://sbilanciamoci.info/la-lunga-agonia-della-grande-impresa-italiana/). Da cui una seconda conclusione: vi è da dubitare che le privatizzazioni abbiano contribuito ad accrescere l’intensità tecnologica delle produzioni italiane e vi sono buone ragioni, per contro, per ritenere che semmai hanno semmai contribuito a depauperare il potenziale tecnologico esistente negli anni nei quali l’Italia ha sperimentato il modello di economia mista con ampia presenza di imprese pubbliche.

È rilevante aggiungere una considerazione. Il periodo nel quale l’economia italiana sperimentò il più intenso intervento pubblico, anche nella forma dell’impresa pubblica, coincide con l’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Occorre ricordare che in coincidenza con quest’ultimo, si produsse il periodo di massima convergenza del Pil pro capite con le regioni del Nord nella Storia d’Italia (dal 1951 al 1973), nonché, soprattutto nella prima fase, uno dei massimi tassi di crescita del Sud fra i Paesi Ocse. La divergenza del Pil pro capite fra le due aree crebbe notevolmente soprattutto a partire dagli anni Novanta. I divari regionali in Italia sono aumentati proprio in corrispondenza della liquidazione delle imprese pubbliche nel Sud, in un contesto macroeconomico nel quale comincia a delinearsi quello che viene definito il «declino economico italiano». Fra il 1995 e il 2020, il contributo del Mezzogiorno al Pil italiano si è ridotto dal 24 al 22%.

I dati elaborati dagli storici economici mostrano, poi, che, a fronte dell’idea diffusa delle imprese pubbliche nel Mezzogiorno come costose «cattedrali nel deserto», la spesa complessiva per l’intervento straordinario nel Mezzogiorno fu molto bassa, pari al solo 0.7% del Pil, con andamenti decrescenti negli anni Settanta e Ottanta. Per contro, decenni di agevolazioni fiscali alle imprese private meridionali – le misure che hanno sostituito l’intervento straordinario nel Mezzogiorno, accelerate da questo Governo, proprio in nome della superiore efficienza della gestione privata delle imprese – stando alle rilevazioni dell’Ufficio Valutazione d’Impatto del Senato hanno generato risultati incerti sulla crescita della macro-area, con il solo esito certo di aver sottratto circa il 7% del gettito fiscale in rapporto al Pil allo Stato italiano (https://www.senato.it/4746?dossier=37321).



 

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