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Non propongo un amarcord sull’epidemia di colera che funestò Napoli tra il 20 agosto e il 12 ottobre del 1973, ormai 51 anni fa. Scrivo per tre ragioni certo che “Repubblica” ha nel Dna la sensibilità culturale e sociale per riconsiderare la storia connessa al presente.

La prima, fondamentale motivazione, per testimoniare e indurre una riflessione sulla storia del sindacato unitario Cgil, Cisl e Uil a Napoli e in Campania e sulla non adeguata rappresentazione dell’azione culturale, sociale e politica sul territorio e per il Mezzogiorno e anche per l’unità sindacale. Lo scrive Giuseppe Galasso nella monumentale opera “Lavoratori a Napoli dall’Unità d’Italia al secondo dopoguerra” (edizioni Progetto Museale), a cura di Cgil, Cisl e Uil: “Le lotte sindacali napoletane sono state assai spesso in primo piano nella azione sindacale a livello nazionale, apportando anche un contributo rilevante di idee e obiettivi per lo sviluppo del Mezzogiorno. Come tale il sindacalismo napoletano non ha ricevuto finora tutta la attenzione storiografica che merita. Bisogna riconoscere che una vera e propria immissione della problematica storico-sindacale in quella più generale della storia cittadina non c’è stata in modo adeguato alla realtà”.

Analoghe considerazioni esprime Valerio Castronuovo, storico della industria.

La seconda ragione per cui scrivo è nel segno di Francesco De Martino. Sostiene lo statista socialista: “Una società che ignora il passato e la propria storia oscura il proprio futuro”. Scrive nella prefazione a “Il riscatto” di Matteo Cosenza (La Camera del Lavoro a Napoli, 1894-1994): “La storia della organizzazione sindacale a Napoli, dalle sue origini ai nostri giorni, è intrecciata con la storia economica, sociale e politica della città. Rievocazioni e ricordi servono anche per la ripresa e il rilancio del sindacato, senza del quale il futuro del mondo del lavoro è senza speranza”. Una riflessione di stringente attualità in tempi di oscurantismo culturale e politico, che impegnano il sindacato sui temi cruciali della Autonomia differenziata, dello sviluppo, dei diritti dentro e fuori i luoghi di lavoro.

La terza ragione, per delineare il ruolo e la capacità di governo del sindacato unitario in una fase “storica” e drammatica quale l’esplosione del colera a Napoli nell’agosto del 1973. Il “male oscuro”, per dirla con Berto, costituì non solo una emergenza sanitaria che calava su una città attanagliata da una crisi economica, sociale e politica profonda e grave, ma anche assediata dalla azione strumentale del Msi di Almirante, configurando una reale emergenza democratica. Erano anche i tempi della rivolta di Reggio Calabria con il “boia chi molla” di Ciccio Franco del Msi e del tentativo sventato di colpo di Stato di Junio Valerio Borghese. Tante le notti in altre case per i dirigenti della Cgil.

Negli anni ’70 Napoli e la Campania costituivano il laboratorio nazionale della unità sindacale. La forza motrice, i gruppi dirigenti con Vignola, Lombardi, Cozzolino, Ferrante, Ridi, Pumpo per la Cgil; Rimesso, Ciriaco, Viscardi e Guardabascio per la Cisl; Mattina, Esposito, Alesio per la Uil. Il retroterra, anni di intenso e sofferto impegno culturale e politico per costruire l’unità. Che non fu soltanto di azione e di lotta ma culturale, strategica, politica. Due soli esempi: nel 1971, per la prima volta dal 1948 e primi in Italia, si celebra a Napoli il Primo Maggio unitario. Una lezione di autonomia politica del sindacato rispetto ai partiti, dalla Dc al Pci, al Psi, al Pri, sintesi del contributo dell’università, del mondo culturale, di economisti e urbanisti. L’unità fu la forza vera che consentì di fronteggiare e governare insieme l’emergenza colera e la enorme tensione sociale e politica che soffocava la città alle prese con il dramma del lavoro che non c’era, i cortei dei disoccupati, l’attacco della destra.

Si aprirono fronti paralleli. Da un lato la lotta politica aspra tra il Pci in primo luogo, la Dc e il Psi per ridimensionare il potere e la forza della Dc a Napoli e nella regione, ma anche la intelligenza politica della necessità di uno spartiacque democratico tra i partiti costituzionali per fronteggiare la destra che puntava alla disarticolazione sociale. Una sorta di “task force” non dichiarata, ma di governo di partiti che anche nelle diversità avevano comune sentire pubblico ed erano forti, attivi e radicati in ogni quartiere.

Non c’erano le aziende sanitarie di oggi, ma ospedali e Inam. Le sezioni furono centri di mobilitazione e organizzazione. Con medici e paramedici di “appartenenza” venivano definiti i tempi delle vaccinazioni, date informazioni sui familiari ricoverati oltre che dosi di solidarietà e di fiducia. C’era un governo reale fatto di uomini e donne in carne e ossa diffuso sul territorio. I dirigenti politici più noti erano in prima linea: Alinovi, Bassolino, Geremicca, Valenzi, Napolitano, Chiaromonte per il Pci; Gava, Pomicino, Scotti, Amato, Armato, Grippo per la Dc; De Martino, Lezzi, Buccico, Antonio Caldoro, Laviano, D’Amato per il Psi; Galasso, Caria e gli altri dei partiti “minori”. Fu senza confini l’impegno dei capisaldi territoriali soprattutto del Pci nei quartieri operai e popolari: Sandomenico, Cennamo, Borrelli, Langella a Ponticelli-Barra-San Giovanni a Teduccio; Kemali Rascid alla Sanità, Imbriaco a Secondigliano, Iossa alla Pignasecca, D’Auria e Valenza a Casavatore-Arzano; Conte e Di Roberto a Pozzuoli; Saul Cosenza a Castellammare , Correra e gli altri nel Nolano; il “nucleo di acciaio” della sezione Pci – Italsider per Bagnoli – Fuorigrotta.

Il sindacato assunse un decisivo compito di governo non solo nello specifico della lotta contro l’epidemia, ma soprattutto in rapporto alla agibilità democratica della città e delle stesse prospettive di sviluppo e di lavoro e anche per un nuovo scenario politico. Nelle fabbriche in particolare c’era preoccupazione per il colera, ma anche per le spinte dei centri decisionali del Nord e di settori della destra di bloccare le produzioni. La parola d’ordine: no alla cassa integrazione. Nei servizi pubblici, i trasporti in particolare, la situazione era esplosiva: le organizzazioni della destra puntavano al blocco, ma anche settori dei sindacati confederali erano allo sbando.

Napoli ribolliva di tensioni. I forni chiusi e presi d’assalto. A Calata Capodichino bande organizzavano posti di blocco per impedire ai panificatori dei Comuni vicini di rifornire panifici e mercati popolari. La destra giocava grosso la carta della jacquerie e della ingovernabilità. Nei quartieri la miscela della precarietà, della disoccupazione, della paura per la mancanza di vaccino per tutti costituiva un mix che poteva incendiare la città. Il rischio del contagio era l’arma subdola e pericolosa puntata contro il Comune, contro i partiti, contro Cgil, Cisl e Uil. Il sindacato non perse tempo. Fu il centro pulsante per la riaggregazione della città. Insieme ma al contempo distinti e distanti dai partiti, con il contributo anche di nuove espressioni culturali, sociali e politiche come i Cristiani per il socialismo, le Acli e altre strutture, si passò alla azione. Furono sufficienti poche riunioni tra via Medina – sede della Cisl – e via Fusco, sede della Cgil, per capire e organizzare il piano operativo. Priorità assoluta: la continuità delle produzioni, del lavoro e dei trasporti; vaccinazioni in fabbrica e nei servizi; vigilanza esterna dei presidi sanitari; interventi antisquadrismo verso panetterie e negozi. Subito, riunioni tese e difficili con i sindacati di categoria e con le sezioni di fabbrica e del pubblico impiego e invito-diktat alle direzioni aziendali per convertire i presidi medici e le infermerie delle fabbriche in veri e propri centri di vaccinazione per i lavoratori e le famiglie, alleggerendo anche la pressione sui centri ospedalieri.

Fu importante il ruolo positivo di alcuni rappresentanti del mondo imprenditoriale tra i quali Enzo Giustino, Ceriani, Paliotto, D’Amato nell’orientare le aziende. Eccezionale il contributo delle rappresentanze sindacali unitarie di fabbrica: Italsider, Aeritalia, Mecfond, Sebn, Olivetti, Sme, Eav,Richard Ginori, Reminghton, Fiat, Ocren, Rhodiatoce, Cirio, vetrerie Ricciardi, Valentino e tante altre dall’area flegrea al mini-triangolo industriale Arzano-Casavatore-Casoria inclusi i settori del commercio e dei servizi.

I trasporti funzionarono: fu il risultato di riunioni incandescenti deposito per deposito, dal Garittone a Croce del Lagno a Stella Polare ma anche di incontri faccia a faccia a casa di alcuni compagni – leader dei diversi luoghi di lavoro. Il colera segnò anche il passaggio del sindacato unitario di Napoli dal governo delle emergenze alla proposta programmatica per lo sviluppo. Era necessario riunificare il tutto e aprire un fronte di lotta per il lavoro verso il governo e la Confindustria. Urgeva aprire una prospettiva con una grande manifestazione unitaria per schierare in campo l’universo del lavoro napoletano e campano . Lo tsunami colera richiedeva anche altro: una forte proposta politica e l’ assunzione di nuove responsabilità anche nazionali.

Non mancarono anche a livello centrale, preoccupazioni fugate dalla determinazione dei dirigenti napoletani. Il 21 settembre una fiumana di oltre 50000 donne e uomini scese in campo per testimoniare il peso della classe lavoratrice a Napoli. Oltre 5000 erano stretti nel Metropolitan e fuori, tutta via Chiaia con piazza dei Martiri e via dei Mille era un tappeto umano. La verità è nelle cronache di quei giorni e di quel giorno. Parlò al Metropolitan, con chi scrive, solo Bruno Storti, segretario generale della Cisl, presenti Rinaldo Scheda e Ruggero Ravenna per la Cgil e per la Uil. Segnò un confine tra epoche e visioni culturali e politiche: il sindacato affermò sul campo di essere forza politica autonoma e unitaria, di lotta e di governo. Una lezione ancora attuale dopo mezzo secolo, anche in chiave nazionale: Cgil, Cisl e Uil capirono che la “questione Napoli” e la “questione Mezzogiorno” erano problemi di caratura nazionale. Come oggi, costituì anche l’ onda lunga che portò Maurizio Valenzi a Palazzo San Giacomo. È storia del sindacato, ma è anche storia di Napoli e del Mezzogiorno. Fu anche la radice della vertenza Campania e testimonianza del Nord e Sud uniti nella lotta, un valore da riaffermare oggi, liquidando l’Autonomia differenziata e il governo separatista e neofascista di Giorgia Meloni. I veri patrioti hanno voluto, combattuto, sofferto e anche pagato con carcere e spesso con la vita, per l’unità nazionale. I cosiddetti “patrioti” di oggi, con miopia culturale e politica, vorrebbero tornare all’Italia preunitaria, spaccando il Paese e aggravando il divario Nord-Sud.

L’autore è stato segretario generale della Cgil Napoli-Campania

 

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