Il 18 agosto di 80 anni fa a Firenze si combatteva per le strade, casa per casa, in una città allo stremo, priva – ad eccezione di Ponte Vecchio – anche dei suoi ponti distrutti dai tedeschi in ritirata. Sette giorni prima era esplosa l’insurrezione che sarebbe andata avanti fino al 1° settembre, quando la liberazione dal nazifascismo sarebbe divenuta definitiva. Intanto il Comitato di liberazione nazionale aveva insediato i propri vertici: il sindaco Gaetano Pieraccini, storico leader socialista, al suo fianco Mario Fabiani, comunista, e Adone Zoli, democristiano. L’assessore ai Lavori pubblici era Ugo Mattei, esponente del Partito d’Azione.
Una giovane di 23 anni, ignara del ruolo politico di primo piano che l’attendeva ma pienamente consapevole della battaglia in corso, faceva la sua parte nella guerriglia: era la partigiana Teresa Mattei, terza figlia di Ugo e della scrittrice ebrea Clara Friedmann, da sempre attiva antifascista in una famiglia in cui i valori della democrazia e della libertà erano la priorità. Lei li aveva assorbiti sin da piccola mostrando un piglio e un coraggio particolari, se è vero che quando aveva 16 anni il padre l’aveva mandata in missione a Nizza a portare del denaro ai fratelli Carlo e Nello Rosselli.
Non solo: un anno dopo, nel ’38, si rifiutò di ascoltare la lezione del professore di Scienze sulla razza ariana, una decisione che le costò l’espulsione da tutte le scuole del Regno (riuscì a diplomarsi da privatista grazie all’intervento di Piero Calamandrei, amico del padre, per poi iscriversi alla facoltà di Filosofia). Non stupisce che nel 1942 Teresa Mattei si iscriva al Partito comunista con il fratello Gianfranco: entrambi decisi a contrastare il regime, trovano il Pcd’I meglio organizzato e più capillarmente diffuso delle altre formazioni politiche. Faranno parte dei Gap, Gruppi di azione patriottica, in prima linea nella Resistenza dopo l’8 settembre, muovendosi tra Firenze e Roma.
Informazioni da trasmettere, sabotaggi, bombe da piazzare… la partigiana Chicchi (questo il nome di battaglia) dà meno nell’occhio con la sua aria mite, riuscendo a portare a termine anche le azioni più rischiose. Il fratello ha un destino tragico: viene tradito e arrestato, con Giorgio Labò, nella prigione di via Tasso a Roma. Gianfranco Mattei è una promessa della chimica, insegna al Politecnico di Milano, lavora con Giulio Natta (futuro premio Nobel nel 1963). Facile, per lui, mettere a punto gli esplosivi usati contro i nazifascisti. Il 1° febbraio del ’44 l’arresto in via Giulia: le torture sono tali da spingerlo al suicidio, nel timore di non reggere. Si impicca una settimana più tardi con la cintura dei pantaloni, dopo aver scritto un biglietto ai genitori e ai fratelli, pregandoli di essere forti come lui lo è stato.
La lotta di Teresa Mattei, ulteriormente alimentata dalla disperazione per la perdita del fratello, non si ferma. È lei – come ha dichiarato in un’intervista anni dopo – a indicare Giovanni Gentile ai due esponenti dei Gap che lo freddano con alcuni colpi di pistola davanti al cancello della sua villa a Firenze, colpevole di aver legittimato intellettualmente il fascismo e di aver aderito alla Repubblica di Salò. È lei a collocare una bomba vicino all’hotel Arno, dove risiedeva il capo della polizia tedesca («quella volta misi il rossetto»: proprio nessuno, così, avrebbe avuto dei sospetti). È ancora lei a guidare nella sua città i Gruppi di difesa della donna che si moltiplicavano nel Nord Italia e davano un contributo essenziale alla causa.
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