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Le prime cinque banche italiane (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps, Banco Bpm e Bper) hanno archiviato la prima metà del 2024 con profitti per 12 miliardi di euro (10 solo per Unicredit ed Intesa Sanpaolo). Ancora un aumento rispetto a un 2023 che già era stato particolarmente generoso. Un anno fa, alla tappa di mezzo, gli utili erano stati un poco al di sopra dei 10 miliardi. Da dove viene questa manna?

Nella quasi totalità da quella voce dei bilanci che si chiama margine di interesse, ovvero la differenza tra gli interessi che una banca incassa dai clienti a cui ha prestato dei soldi e quelli che paga a chi deposita del denaro nelle sue filiali. Naturalmente più questa differenza si amplia, più una banca guadagna. I rialzi dei tassi decisi dalla banca centrale producono anche questo effetto. In teoria, gradualmente, i benefici dei tassi più alti dovrebbero trasferirsi anche ai depositanti, la cui remunerazione dovrebbe salire, così come scende, molto più rapidamente, quando i tassi si riducono.

Tuttavia le banche italiane sono state particolarmente lente in questa operazione. Le più indolenti d’Europa, secondo alcune rilevazioni. Non si dimentichi che quando i tassi erano a zero, molto istituti non pagavano nulla ed hanno iniziato a zavorrare i conti correnti con balzelli più o meno dichiarati, come spese per i prelevamenti agli sportelli, etc. Aumenti del costo del conto che non sono mai rientrati o lo hanno fatto solo in minima parte. E infatti, a crescere sono stati anche gli incassi della voce “commissioni”, la seconda per consistenza nei bilanci bancari.

Altro modo di fare utili è stato quello di stare semplicemente a guardare come crescevano gli interessi che la Bce paga alle banche sulle somme che queste tengono depositate presso l’istituto centrale. Non ce ne vogliano i manager, che possono consolarsi con i maxi bonus legati ai risultati e con l’aumento del valore delle stock options, ma qui di grandi meriti nella dirigenza ce ne sono pochi. Anzi, i prestiti (impieghi nel gergo bancario) diminuiscono, i costi restano uguali. Ma ai banchieri è bastato tenere alzata la vela quando il vento ha ripreso a soffiare.

Sono fattori che renderebbero più che giustificata la richiesta di un contributo all’Erario un po’ più alto di quanto avverrebbe in circostanze normali. Qualcuno obbietta che le banche venivano da un periodo di vacche magre, con i tassi a zero. Ma è piuttosto facile controbattere che a pagare il conto di questa fase sono stati anche i depositanti e che se il costo del denaro è rimasto bassissimo a lungo è stato proprio per rimediare ai disastri causati dalle stesse banche sfociati nella drammatica crisi del 2008 e per cui sono servite anche ingenti iniezioni di soldi dei contribuenti. Lo scorso anno il governo Meloni provò, in modo molto maldestro, ad imporre una una tassa sugli extraprofitti bancari. Lo stesso ha fatto, con più sapienza, la Spagna e questo ha portato nelle casse di Madrid un miliardo di euro, senza nessun particolare contraccolpo per gli istituti iberici.

L’iniziativa italica si è invece tramutata in un flop clamoroso. Dopo una indecorosa ritirata (anche per le pressioni della famiglia Berlusconi, socia di banca Mediolanum e “azionista” del governo) , la tassa è stata di fatto cancellata e lo Stato non ha incassato neppure un euro in più, nemmeno da Mps, banca in cui il ministero dell’Economia era e rimane l’azionista di maggioranza. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, forse rimasto scottato da questa esperienza, starebbe ora tentando di mettere a punto una soluzione meno diretta, ripescando un suggerimento che viene dall’Antitrust. Le dichiarazioni del ministro sono state in effetti un po’ sibilline: “Certamente le banche, come le altre realtà che fanno utili, che stanno bene, saranno chiamate come tutti i cittadini a contribuire alla finanza pubblica, quindi penso che non ci sia niente di strano”.

Secondo quanto scrive il quotidiano La Repubblica, allo studio ci sarebbe l’idea di imporre alle banche di alzare gli interessi pagati ai correntisti. Le cifre degli aumenti, non precisate, sono piccole ma applicate a somme enormi. Solo sui conti correnti italiani sono depositati poco meno di 2mila miliardi di euro. Un aumento medio degli interessi pagati significherebbe 20 miliardi in più versati ai correntisti. Cosa ne viene allo Stato? Oltre ad una qualche recupero del potere di spesa delle famiglie (e quindi incassi Iva), come tutte le rendite finanziarie, anche queste sono tassate al 26%. Il fisco incasserebbe quindi, in questa ipotesi, poco più di 5 miliardi.

Anche se le cifre fossero più modeste, in vista di una legge di bilancio molto complicata, sarebbero comunque una boccata d’ossigeno. Un provvedimento di questo genere, obbligatorio per le banche, presta il fianco a rilievi di natura giuridica. Anche su questo fronte ci sarebbe battaglia. Ma che, al di là delle smentite, qualcosa in pentola stia bollendo, lo testimoniano le dichiarazioni dell’Abi, l’associazione delle banche italiane, che nei giorni scorsi ha tenuto a precisare che “Sul reddito prodotto dalle banche si sommano varie e maggiori imposte rispetto alle imprese degli altri settori economici”.

 

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