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Da ormai un decennio, l’Italia si trova ad affrontare una lenta ma costante crisi demografica, ma le conseguenze iniziano a vedersi ora e saranno ancora più evidenti nei prossimi anni. Un rapporto di Area Studi Legacoop e Prometeia rivela che il sistema produttivo italiano perde circa 150.000 lavoratori, e li perderà almeno fino al 2030. Un campanello d’allarme, mentre il Paese si avvicina al punto di non ritorno.

Intervenire con politiche che incentivino la natalità, il welfare aziendale e migliorino le competenze dei giovani è ormai indispensabile. Questi ragionamenti valgono soprattutto per i settori più esposti alle conseguenze della crisi demografica, che significa non solo culle sempre più vuote ma anche popolazione sempre più anziana.

Culle vuote e aziende svuotate

Il declino demografico italiano è radicato in un lungo periodo di basse nascite e in un aumento dell’età media della popolazione. Anche se diventato preoccupante solo negli anni Duemila, il tasso di natalità è iniziato a scendere già dal 1980. Da quell’anno al 2022, le nascite si sono più che dimezzate passando da 800.000 nuovi nati a meno di 400.000. La crisi è accentuata dal fatto che la generazione dei baby boomer, nata negli anni ‘60 e ora in fase di pensionamento, è di gran lunga più numerosa rispetto ai giovani che entrano nel mercato del lavoro e reggono il sistema pensionistico.

E siccome la matematica non è un’opinione, il Ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha ribadito: “Parliamo molto spesso in questa Aula di pensioni, sarebbe il caso di cominciare a parlare di quello che è il trend demografico del Paese: nessun sistema pensionistico è sostenibile in un quadro demografico come quello attuale”. Parole che il titolare del Mef aveva pronunciato quasi identiche già un anno fa.

Il nodo pensioni

La perdita annuale di 150.000 lavoratori è amplificata dalle uscite pensionistiche, che hanno raggiunto le 600.000 all’anno, mentre le nuove assunzioni si fermano a circa 450.000. Il trend è semplice quanto devastante per l’economia italiana: più è alta l’età media della popolazione, più sono anziani i lavoratori. Di conseguenza c’è un sostenuto numero di pensionati, che non riusciamo a rimpiazzare con le nuove generazioni.

Per questo, il governo Meloni ha fortemente disincentivato l’uscita anticipata dal lavoro e, a guardare i dati Inps, l’obiettivo è stato raggiunto. L’introduzione di Quota 130 ha avuto un impatto evidente sulle scelte degli italiani. Nei primi sei mesi del 2024, l’istituto ha registrato un calo del 14,15% nelle pensioni anticipate rispetto allo stesso periodo del 2023, con soli 99.707 nuovi assegni erogati contro i 116.143 dell’anno precedente​

Il nuovo sistema richiede 62 anni di età e 41 anni di contributi con finestre passate da 3 a 7 mesi per i lavoratori privati e da 6 a 9 mesi per i pubblici.

Questo calo è accompagnato da una generale diminuzione delle nuove pensioni complessive: tra quelle di vecchiaia, invalidità e superstiti si sono registrate 376.919 nuove pensioni nel periodo considerato, con un calo del 12,54% rispetto al primo semestre 2023.

Nel primo semestre 2024 le pensioni anticipate sono state scelte soprattutto dai dipendenti pubblici. Infatti, se per la gestione dei lavoratori autonomi (coltivatori diretti, commercianti e artigiani) le anticipate sono il 24% delle pensioni totali (vecchiaia a quota 40%), per la gestione dei dipendenti pubblici l’uscita anticipata rappresenta il 46% delle pensioni totali (per approfondire: Pensioni anticipate crollano, per le donne assegno -30,58% rispetto a uomini)

La fuga dei cervelli

A questo bisogna poi aggiungere la famigerata fuga dei cervelli, che in realtà è anche fuga di mani, gambe e forza lavoro che viene pagata molto meglio all’estero. Nel 2022, hanno lasciato l’Italia circa 95.000 persone, +20% rispetto al periodo pre-pandemia.

Questa emigrazione non è solo un fenomeno giovanile, ma coinvolge anche professionisti altamente qualificati in cerca di migliori opportunità all’estero. Tra il 2012 e il 2021 1 milione di italiani è andato a lavorare all’estero, di questi 250mila aveva la laurea: il 5-8% dei laureati totali. Di questi meno di un terzo ha fatto ritorno nonostante le diverse agevolazioni fiscali previste.

Pier Giorgio Bianchi, co-founder e amministratore delegato Talents Venture, ha evidenziato come per un ricercatore non italiano che prende una borsa di studio nel Bel Paese, ce ne siano dieci italiani che la prendono all’estero, dove gli stranieri siamo noi. Paradossale ma vero.

Il mismatch di competenze

In alcuni settori la crisi demografica è accentuata dal mismatch tra le competenze richieste dal mercato e quelle offerte dai giovani.

La carenza di figure professionali in ambiti strategici, come ingegneria e scienze, si scontra con un eccesso di laureati in discipline per le quali il mercato offre poche opportunità. La carenza di ingegneri e tecnici specializzati è particolarmente acuta in settori ad alta tecnologia, come l’IT e il settore delle energie rinnovabili, dove la domanda cresce rapidamente ma l’offerta non riesce a tenere il passo.

In parallelo, dalle università italiane escono molti giovani talenti laureati in aree con alta offerta e bassa domanda. Ad esempio, in scienze politiche e sociali, le università formano annualmente il doppio dei laureati rispetto alle posizioni disponibili nel settore pubblico e privato. Allo stesso modo, i laureati in lingue straniere e psicologia spesso trovano difficoltà a inserirsi nel mercato del lavoro, dove la domanda di tali competenze è insufficiente rispetto all’offerta.

Il problema non si limita alle professioni altamente qualificate. Anche le aziende che cercano personale meno qualificato, come operai e lavoratori manuali, segnalano gravi difficoltà.

Un rapporto dell’Associazione Nazionale dei Piccoli Imprenditori evidenzia che il 50% delle imprese lamenta difficoltà nel trovare manodopera poco qualificata, soprattutto in settori come l’agricoltura e il turismo, dove le condizioni di lavoro e i salari non sempre attraggono i lavoratori locali.

Proprio con l’obiettivo di integrare meglio le competenze richieste con quelle offerte, a inizio mese la Camera dei deputati ha approvato la riforma dell’istruzione tecnico-professionale, introducendo il nuovo modello 4+2 in questo tipo di istituti. Per il Ministro dell’Istruzione e del Merito si tratta di “un momento importante per il futuro dei ragazzi e del nostro sistema produttivo”. Secondo Valditara, la nuova filiera tecnico-professionale rappresenta un’opportunità per garantire una formazione di alta qualità che risponde alle esigenze del mercato del lavoro e delle imprese.

I nuovi percorsi formativi saranno arricchiti dalla partecipazione di esperti provenienti dalle imprese, per fornire un contributo pratico e aggiornato, agli studenti, garantendo che le competenze insegnate siano effettivamente allineate con le esigenze del mercato del lavoro.

Inoltre, la riforma punta a potenziare lo studio delle materie STEM, essenza del gap domanda-offerta, delle lingue e delle competenze trasversali.

L’immigrazione per tenere a galla il sistema

Le aziende italiane si trovano quindi costrette a fare affidamento su lavoratori immigrati, con le richieste di assunzioni provenienti da Paesi extra UE che superano regolarmente i posti disponibili attraverso il Decreto flussi.

Nel 2023, le richieste di lavoro per i lavoratori non comunitari hanno superato di circa il 30% i limiti annuali previsti dal governo, mettendo in evidenza l’urgenza di politiche migratorie più flessibili e di misure per integrare meglio i lavoratori già presenti nel mercato. In pratica, gli immigrati hanno prima tenuto in piedi (seppur barcollante) la demografia italiana, ora devono generare ricchezza lavorando laddove gli italiani non vogliono più farlo. Questo quadro è particolarmente accentuato in Italia, ma non riguarda soltanto il Belpaese, tanto che l’Unione europea ha stilato un piano per attrarre i talenti extra comunitari.

Molti Paesi europei hanno meno talenti di quanti il mondo produttivo ne richiede. Nell’Unione è laureato il 41% dei giovani tra i 25 e i 34 è pari al 41%. In Italia appena il 21%, praticamente la metà della media Ue.

In termini assoluti la diminuzione dei laureati è già scritta: il numero dei giovani e dei nuovi nati è così basso che anche se si laureassero tutti (praticamente quintuplicando le attuali percentuali) non basterebbero a coprire le esigenze produttive del Paese. E con la crisi delle nascite, è lecito aspettarsi che caleranno anche i laureati, seguendo una previsione realistica e non onirica.
Insomma, se fino ad ora l’immigrazione ha tenuto a galla la natalità (seppure con un deciso rallentamento negli ultimi anni), ora neanche questo basta più: adesso gli immigrati devono salvare la nostra produttività.

Ma l’Italia sarà in grado di salvare sé stessa?

 

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