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Si è tenuta ieri, presso la Corte Suprema di Cassazione a Roma, l’udienza per il ricorso alle misure cautelari di Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh, i tre palestinesi arrestati dalle autorità italiane con l’accusa di “resistenza”.

L’udienza di ieri mattina si è svolta a porte chiuse in quanto, di regola, la Corte di Cassazione decide in Camera di Consiglio non partecipata: pertanto non erano presenti Anan, Ali e Mansour e nemmeno terzi, ma i soli avvocati. In concomitanza, a Roma, dopo il partecipato corteo di sabato che ha visto centinaia di persone scendere in piazza per chiedere la liberazione dei tre e per condannare la criminalizzazione della resistenza palestinese da parte delle autorità italiane, si è svolto un presidio davanti al Palazzo di Giustizia. Iniziative simili sono state organizzate anche in altre città italiane, a Milano, Bergamo, Como, Firenze, Pisa, Modena.

La corte ha annullato con rinvio per Ali Irar e Mansour Doghmosh, i quali dovranno, presumibilmente subito dopo l’estate, tornare davanti al Tribunale del Riesame dell’Aquila che dovrà rivedere la propria decisione di tenerli in carcere. Questo è da ritenersi un primo passo avanti che potrebbe significare la scarcerazione in tempi brevi per Ali e Mansour. Per Anan Yaeesh, la Corte di Cassazione ha invece confermato le misure cautelari: pertanto dovrà rimanere in carcere almeno per tutta la durata del processo.

Flavio Rossi Albertini avvocato dei tre compagni  palestinesi  Ascolta o scarica

Questo vuol dire che si andrà avanti nella costruzione di un’ampia mobilitazione a suo sostegno e favore, per la sua liberazione e per il diritto del popolo palestinese a resistere, denunciando la complicità dell’Italia e del governo Meloni che, nel pieno di un genocidio, oltre a fornire appoggio politico e militare a Israele, concede a oltre mille cittadini italiani di combattere nelle fila dell’esercito israeliano; che – nonostante avesse dichiarato il contrario – ha continuato a fornire armi all’esercito d’occupazione israeliano per tutta la durata della guerra; che decide di arrestare tre palestinesi con l’accusa di sostenere una resistenza riconosciuta legittima dallo stesso diritto internazionale, prostrandosi alla volontà di USA e Israele, alla faccia della tanto decantata “sovranità”.

Le considerazioni di Yousef Salman portavoce Mezzaluna Rossa palestinese in Italia Ascolta o scarica

 

RICOSTRUZIONE VICENDA GIUDIZIARIA DI ANAN YAEESH

In data 27 gennaio 2023 il governo italiano accoglieva la richiesta di arresto provvisorio a fini estradizionali avanzata dal governo Israeliano nei confronti del palestinese Anan Yaeesh. Il crimine addebitato a Yaeesh era quello di essere un membro attivo della resistenza palestinese intrapresa nella città di Tulkarem, Cisgiordania. Pertanto, il governo italiano inoltrava la domanda di arresto alla Corte di Appello de l’Aquila che ne disponeva pedissequamente la custodia cautelare in carcere. In data 26 febbraio la difesa avanzava istanza di revoca della misura cautelare in esecuzione evidenziando la sussistenza di condizioni giuridiche ostative all’estradizione del proprio assistito nello stato richiedente ed integrate:
1) dal rischio concreto ed effettivo che Anan, qualora estradato in Israele, sarebbe stato  sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, a tortura, rischio documentato dai report
delle organizzazioni non governative ritenute affidabili sul piano internazionale, dal  Rapporto delle Nazioni Unite redatto dalla Relatrice Speciale sulla situazione diritti umani nel territorio palestinese. Infine perché il rischio di violazioni dei diritti umani di Anan era già stato espressamente riconosciuto dalla Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Foggia, ovvero da  una articolazione del ministero degli interni, la quale dal 2019 aveva ritenuto sussistenti  i presupposti per la concessione della protezione speciale sulla base del principio di  non refoulement ovvero del rischio di sottoposizione dello stesso a trattamenti inumani  e degradanti in caso di espulsione in Israele.
2) dalla cd. “clausola di non discriminazione” che si sostanzia nel doppio standard  normativo e giudiziario – cd. Apartheid – , applicato ai palestinesi dei territori occupati rispetto ai coloni israeliani; nella deportazione e detenzione dei palestinesi in territorio  israeliano; nella detenzione amministrativa. Ragion per cui, ad avviso della difesa, la protrazione della custodia cautelare,  prodromica e funzionale all’estradizione stessa, si appalesava automaticamente  illegittima.
In data 13 marzo 2024 la Corte d’Appello de L’Aquila, in accoglimento degli argomenti  difensivi, disponeva la revoca della custodia cautelare in favore di Anan Yaeesh e il successivo 30 aprile dichiarava non luogo a provvedere in ordine all’esistenza delle condizioni per l’accoglimento della domanda di estradizione, in considerazione del fatto che il precedente 23 aprile il Ministero della giustizia aveva comunicato il ritiro  della domanda di estradizione da parte di Israele.
In data 11 marzo, esattamente due giorni prima la revoca della custodia cautelare  disposta dalla Corte d’Appello, ad Anan, unitamente a due ragazzi palestinesi amici dello stesso e con lo stesso dimoranti a l’Aquila, Irar Ali e Doghmosh Mansour, veniva  notificata un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip de l’Aquila in ordine al reato di cui all’art. 270 bis c.p..
Pertanto, i tre venivano accusati di terrorismo perché congiuntamente alla resistenza  palestinese della Cisgiordania avrebbero partecipato alla lotta armata contro l’occupante straniero, fenomeno resistenziale ricondotto dalla magistratura requirente  e giudicante alla categoria del terrorismo invece che al legittimo diritto alla autodeterminazione dei popoli. Ciò, nonostante il diritto internazionale umanitario  riconosca alle popolazioni sottoposte all’occupazione il diritto, anche con la lotta armata, all’indipendenza, salvo il limite integrato dal compimento di azioni militari di  ribellione contro la popolazione civile.
La difesa proponeva riesame avverso la predetta ordinanza, riesame tramite il quale la  stessa evidenziava:
1) l’insussistenza di gravità indiziaria in ordine all’art. 270 bis c.p., per la pacifica  riconducibilità dei fatti sottesi alla presente vicenda nell’alveo del diritto internazionale umanitario in tema di autodeterminazione dei popoli; 2) la conseguente erronea individuazione, da parte del Gip, dei profili che si pongono  al di fuori della situazione scriminata dal diritto internazionale, ossia il presunto  compimento da parte dell’associazione investigata di azioni militari verso obiettivi  civili israeliani;
3) ancora l’impossibilità di ricondurre i territori teatro dei fatti alla nozione di Stato  Estero di cui al comma 3 dell’art. 270 bis c.p. in quanto gli atti di violenza sarebbero commessi in Palestina, ossia in un territorio, che da una parte non è stato ancora  riconosciuto come tale dal diritto internazionale, e dall’altro è un’occupazione, in quanto tale ritenuta illegale dallo stesso diritto internazionale e che non può essere  considerato territorio israeliano in quanto, in virtù del predetto diritto internazionale, non è consentita la possibilità di un’annessione compiuta attraverso aggressioni militari;
4) infine l’insussistenza di alcuna condotta partecipativa valorizzabile per Ali e  Doghmosh secondo i dettami al riguardo forniti dalla Suprema Corte, essendo stati a tal fine enfatizzati dei meri sospetti ovvero congetture.
In data 4 aprile 2023 il Tribunale della Libertà confermava l’ordinanza del Gip, in particolare ravvisando il superamento del limite posto alla ribellione armata per il
diritto all’autodeterminazione, ossia il compimento di azioni contro obiettivi civili, nella pianificazione di un attentato ad Avnei.
Pertanto, la difesa proponeva ricorso per cassazione censurando:
1) in primo luogo le massime d’esperienza utilizzate dal Tribunale del Riesame per ritenere che il predetto attentato sia stato effettivamente compiuto e che lo stesso implicasse la volontà di attaccare i coloni;
2) l’illogicità della motivazione con cui il Tribunale ha ritenuto sussistente la finalità terroristica, posto che seppur si volesse sostenere che un attentato terroristico è stato effettivamente compiuto, il singolo atto di terrorismo in esame certamente non sarebbe riconducibile ad alcuna fattispecie associativa, in particolare a quella di cui all’art. 270 bis c.p.;
3) la mancanza di motivazione rispetto alle censure difensive inerenti la mancanza dell’elemento costitutivo della struttura del reato di cui all’art. 270 bis c.p., ossia la nozione di Stato estero;
4) infine l’omessa motivazione sul dolo specifico di terrorismo ravvisabile rispetto ad Irar e Doghmosh, conoscenza prodromica senza la quale anche l’eventuale ma non dimostrata loro partecipazione all’associazione risulterebbe scriminata dal diritto internazionale.
In data 11 luglio la Corte di Cassazione, Sezione VI, dovrà decidere in ordine al predetto ricorso

STORIA DI ANAN

Il sig. Anan Kamal Afif Yaeesh è un cittadino palestinese, nato a Nablus e vissuto a Tulkarem (Cisgiordania) con la propria famiglia fino al settembre del 2013. Il padre, le sorelle e i fratelli vivono tuttora a Tulkarem; la madre è morta dopo anni di grave disabilità in seguito a un ictus. Il ricorrente non ha mai fruito della protezione e dell’assistenza dell’UNRWA.
All’età di 14 anni il ricorrente, in seguito all’uccisione della sua fidanzata da parte di militari ell’esercito israeliano (Israeli Defence Force, IDF), ha abbandonato la scuola e aderito all’organizzazione politica al-Fatḥ (nota anche come Fatah). Nel 2003 è entrato nelle Brigate dei Martiri di al-Aqsa (Kataeb Shuhada al-Aqsa), organizzazione militare contigua a Fatah. Dopo aver svolto attività politica all’interno di essa e ricevuto anche una formazione militare, è stato incaricato di far parte di Forza 17, ovverosia la guardia personale del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), Yasser Arafat. In riconoscimento del suo impegno quale esponente più giovane arruolato nelle formazioni militari della resistenza palestinese, all’inizio del 2004 Arafat gli attribuì il titolo onorifico di maggiore. Tra il 2002 e il 2005 il ricorrente ha partecipato anche alle attività politiche di Fatah. Nello stesso periodo ha rivestito il ruolo di ufficiale dei servizi segreti palestinesi, occupandosi di sicurezza interna, venendo poi estromesso su pressione del governo israeliano, in quanto ritenuto implicato in alcune operazioni militari contro Israele.
In seguito agli Accordi di pace del 2005, le autorità israeliane posero come condizione, tra le altre, per il ritiro dell’esercito occupante dalla città di Tulkarem la morte o la consegna del ricorrente. La città di Tulkarem ricade infatti nella zona di tipo A) che secondo gli Accordi di Oslo è sotto l’esclusivo controllo dell’ANP. Per corrispondere alla richiesta israeliana senza sacrificare la vita del ricorrente le autorità palestinesi lo affidarono, il 15.9.2005, all’esercito americano che gestiva, insieme a inglesi, egiziani e giordani, il carcere di Gerico (Ariha, in arabo), ove è stato imprigionato per circa sei mesi, visitato dalla Detention Unit della Croce Rossa Internazionale. Nel 2006 la città di Gerico-Ariha è stata bombardata dalle forze armate israeliane e nel corso di questa operazione il ricorrente ha avuto l’occasione di fuggire dal carcere. Tornato a Tulkarem, ha vissuto insieme ad altri compagni che condividevano le sue idee politiche. In quel periodo gli israeliani hanno continuato a cercarlo per arrestarlo in quanto membro di Kataeb Shuhada al-Aqsa. Il 2.12.2006 il ricorrente è stato ferito in un conflitto armato con le forze armate israeliane, colpito da proiettili in diverse parti del corpo; dopo un ricovero nell’ospedale di Tel Aviv, dove un soldato israeliano ha tentato di ucciderlo, e quindi nell’ospedale militare di Haifa, è stato detenuto in un carcere di massima sicurezza. Il ricorrente è stato condannato dal Tribunale israeliano di Salem per possesso di armi, appartenenza al partito Fatah, e tentata operazione di piazzamento di un ordigno oltre la Linea verde e dunque detenuto nelle carceri israeliane per 3 anni e 10 mesi e trasferito in 18 prigioni diverse ove ha subìto torture. L’8.4.2010 è stato scarcerato e sottoposto all’obbligo di dimora in Tulkarem per cinque anni. Dopo la scarcerazione è stato un membro attivo del partito Fatah dirigendo, dal 2010, la struttura che si occupa dei detenuti palestinesi appartenenti al partito; nel 2011 ha iniziato a lavorare come direttore della sicurezza di un’azienda chiamata Megaland. In questo periodo si è iscritto all’università al-Quds Open University di Tulkarem dove ha studiato scienze politiche per tre anni. Alla fine del 2010 ha tentato di recarsi in Giordania per operarsi alla gamba destra dove erano ancora presenti schegge di proiettili dell’agguato di cui era stato vittima nel 2006 ma è stato arrestato al confine, sul ponte di Allenby, ove un comandante israeliano gli ha offerto 100.000 dollari affinché lasciasse la Palestina. A seguito del suo rifiuto ha subito ritorsioni da parte degli israeliani che hanno iniziato a fare irruzione nella sua abitazione e sul posto di lavoro, a sottoporlo a controlli per strada e a trattenerlo, oltre che a perseguitare la sua famiglia.
A causa di tutte queste violenze e pressioni e delle ripercussioni che la sua attività politico militare ha avuto sulla famiglia di origine, egli ha deciso di lasciare volontariamente la Cisgiordania il 23.9.2013. Da Amman ha preso un aereo con scalo a Istanbul diretto a Oslo. Dalla Norvegia si è recato in Finlandia dove ha fatto richiesta di asilo politico ma è stato rimandato in Norvegia dove ha proseguito la domanda di rotezione, restando legalmente nel Paese per circa quattro anni, fino al febbraio 2017. In Norvegia ha vissuto e lavorato a Kristiansand. Nel 2017 Israele ha richiesto la sua incarcerazione e la Norvegia ha aderito alla richiesta revocando la protezione concessa. La richiesta israeliana era motivata dal fatto che a seguito dell’arresto in Cisgiordania di un gruppo di ragazzi di Tulkarem, che volevano colpire con le armi le forze israeliane, gli arrestati avevano accusato il ricorrente di averli fatti avvicinare alla Kataeb Shuhada al-Aqsa, organizzando l’operazione. Avverso il rifiuto del permesso di soggiorno norvegese per protezione il ricorrente ha proposto ricorso, che tuttavia è stato respinto, determinando la sua scelta di lasciare la Norvegia, recandosi dapprima in Svezia, tornando poi in Norvegia e quindi l’8.10.2017 ha raggiunto l’Italia in aereo. Recatosi a l’Aquila dove contava di trovare lavoro, si è poi spostato a Mestre dove, dal 2019 al 2020, ha gestito un ristorante. Nel capoluogo abruzzese ha chiesto la protezione internazionale e la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Foggia, con decreto emesso l’11.4.2019, all’esito delle audizioni del 20.9.2018 e del 21.12.2018, ritenuta credibile la vicenda esposta dal ricorrente («Tenuto conto del contributo del richiedente all’interno delle Brigate dei martiri di al-Aqsa e delle condotte dal medesimo poste in essere; considerato il rischio connesso a ritorsioni e/o maltrattamenti aventi intensità persecutoria da parte di Israele nel contesto della succitata attività repressiva posta in essere dal governo di tale Paese avverso coloro che abbiano militato nelle Brigate e, più in generale, in organizzazioni terroristiche (…) Osservato che i timori espressi in ragione dell’opinione politica e dell’attività svolta soddisfano il requisito del nesso con gli specifici motivi di persecuzione contemplati dall’art. 1.A.2 della Convenzione di Ginevra, così come interpretato e integrato dall’art. 8 d.lgs. 251/2007») ha tuttavia ritenuto sussistente le clausole di esclusione al riconoscimento della protezione internazionale in ragione della fondatezza dei rischi persecutori in caso di rientro nella zona di provenienza. Il Questore ha quindi rilasciato il permesso di soggiorno per protezione speciale. Nel maggio 2023 il ricorrente si è recato ad Amman per conoscere i familiari della sua fidanzata in vista del matrimonio che avrebbe dovuto celebrare nei mesi successivi. Nel corso della sua permanenza in Giordania è stato arrestato e detenuto per circa sei mesi senza alcuna accusa o procedura estradizionale attivata nei suoi confronti, e nel novembre 2023 è stato espulso e ha quindi fatto rientro in Italia. In prossimità della scadenza del permesso di soggiorno, nel gennaio 2024 il ricorrente ne ha chiesto il rinnovo.

Nelle more della procedura di rinnovo del permesso di soggiorno, il sig. Yaeesh è stato attinto da una richiesta di estradizione emessa il 23.1.2024 e trasmessa il 25.1.2024 da parte dello Stato di Israele, per l’esecuzione di un mandato di arresto per i reati di:
a) partecipazione a un’organizzazione terroristica e reclutamento di associati (reati previsti dagli artt. 22(b) e 22(c) della Legge Anti-Terrorismo di Israele 5776/2016, i quali prevedono ognuno una pena massima di 7 anni di reclusione);
b) proibizione di transazioni patrimoniali a fini terroristici (reato previsto dall’art. 31(a) della Legge Anti-Terrorismo di Israele 5776/2016, che prevede una pena massima di 10 anni di reclusione). Poiché le autorità israeliane hanno richiesto l’arresto del ricorrente, il 27.1.2024 è stato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere nell’ambito della procedura di estradizione.
La Corte di Appello di l’Aquila, con ordinanza del 13.3.2024, ha negato detta estradizione, rilevando che il ricorrente potrebbe essere sottoposto a trattamenti crudeli, disumani o degradanti, o comunque ad atti che configurano la violazione di uno dei diritti umani della persona, disponendo pertanto la revoca della misura cautelare.
Il sig. Yaeesh, tuttavia, è a tutt’oggi in custodia cautelare in applicazione di altra ordinanza per un separato procedimento penale (R.G. 99/2024, R.G.G.I.P. 164/2024 Trib. l’Aquila). Nel frattempo, la Questura di l’Aquila, con comunicazione ex art. 10 bis l. 241/1990 del 5.4.2024, ha preavvisato il ricorrente di ritenere l’istanza inammissibile «a seguito della sentenza del Tribunale di Bari» in riscontro alla quale è stata inviata una memoria difensiva in cui sono stati contestati i presupposti di inammissibilità e dedotta la sussistenza dell’attualità e della concretezza del rischio persecutorio, richiamando sul punto la decisione di diniego di estradizione della Corte d’appello. Tuttavia, in data 21.4.2024 il Questore di l’Aquila ha notificato al ricorrente il provvedimento datato 16.4.2024 di inammissibilità dell’istanza di rinnovo del permesso per protezione speciale.

 

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