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«Su TFR e fondi pensione dubbi… #finsubito prestito immediato


Al centro della Manovra c’è la necessità di razionalizzare la spesa pubblica. Il motivo è semplice: rispettare i requisiti fiscali europei, oltre che sostenere misure per i giovani, la natalità e le pensioni. E proprio quest’ultimo capitolo potrebbe essere fondamentale. Il Governo vaglia una serie di proposte per rafforzare la previdenza privata, focalizzate sul Trattamento di Fine Rapporto. Nello specifico, si parla di istituire un nuovo semestre di silenzio-assenso, consentendo ai lavoratori di esprimere un eventuale rifiuto a destinare la propria liquidazione a un fondo pensione.

Un’altra via inizialmente proposta, quella di destinare direttamente e obbligatoriamente il 25% del TFR ai fondi pensione, pare meno percorribile.

«Non va nella direzione giusta», dice Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali. «Penso anche che abbia dei profili di incostituzionalità, perché il TFR è retribuzione differita. Di conseguenza, vedo difficile che un Ministro o un Governo possano imporre a un lavoratore dove mettere i suoi soldi. In più, perché concentrarsi su un provvedimento che riguarderebbe solo i lavoratori dipendenti e non anche gli autonomi e i liberi professionisti, che tra l’altro hanno aliquote di contribuzione più basse? Per i primi arrivano a malapena al 24%, mentre per questi ultimi difficilmente superano il 20%. I dipendenti, al contrario, sono gli unici che versano il 33%. In pratica, è un’assurdità».

In un caso o nell’altro, però, implementare nuove misure a favore dei fondi pensione sembra essere cruciale. La previdenza pubblica è in difficoltà da anni: nel 2023 i lavoratori sono aumentati a 26,6 milioni, allentando lievemente la pressione. Ma l’età media di pensionamento troppo bassa (64,2 anni) fa presagire altri peggioramenti nel rapporto attivi/pensionati (XXIII rapporto INPS, 2024). Investire in previdenza complementare è dunque una scelta prudente e lungimirante per i contribuenti che vogliano garantire il loro tenore di vita futuro. E in una stagione in cui investire nel Paese è di vitale importanza – lo ha messo in luce, da ultimo, il rapporto Draghi – potrebbe forse essere la volta buona per cercare di puntare a convogliare questi fondi nell’economia del Paese. Un fatto quantomai auspicabile, che potrebbe aumentare considerevolmente la quota degli investimenti istituzionali non bancari in questo campo.

Di recente è uscito il vostro rapporto sugli investitori istituzionali italiani. Qual è la situazione?

«Ottima, dal punto di vista patrimoniale: nonostante le crisi ricorrenti, è aumentato, rispetto al 2008, del 107%. Ormai abbiamo raggiunto i 990 e più miliardi, per cui sicuramente nel 2024 sfonderemo ampiamente quota 1.000 miliardi. È un aumento che ha coinvolto un po’ tutte le categorie: dai fondi pensione negoziali a quelli aperti, dai PIP (Piani Individuali Pensionistici) alle Casse di Previdenza dei liberi professionisti.

L’insieme della previdenza complementare veleggia ormai verso i 224 miliardi di euro di patrimonio e anche il comparto assicurativo, nonostante i riscatti relativi alle gestioni separate che hanno caratterizzato il 2022, il 2023 e in parte questi primi mesi del 2024, arriva a quasi 610 miliardi di euro. Insomma, abbiamo dei solidi investitori istituzionali. Questo è il primo trend: il patrimonio cresce. Si è avuto, certo, uno stop nel 2022 per i problemi che hanno colpito i mercati finanziari, ma si sono ripresi tutti bene».

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Come ci posizioniamo a livello internazionale?

«Per i fondi pensione, ci posizioniamo piuttosto bene nelle classifiche, ottenendo un 14esimo posto sui 38 Paesi OCSE, 15esimo prendendo in considerazione anche altri 30 Paesi esterni all’organizzazione. Ma in questi dati è preso in considerazione anche il cosiddetto terzo pilastro, quello della previdenza privata facoltativa, che ha una forte componente assicurativa. Questa è la prima nota dolente, perché l’Italia purtroppo negli anni 2000 ha cancellato il terzo pilastro, cosicché ora siamo uno dei pochi Paesi a non averlo. Di conseguenza, gli italiani si sono rivolti alle polizze di ramo primo (assicurazioni sulla durata della vita umana, ndr), che cubano 608 miliardi.

Ora, se noi tirassimo fuori anche solo 100 miliardi da questo ramo – ed è una stima conservativa – l’Italia si classificherebbe già decima al mondo. Detto questo, i dati ci comunicano comunque che l’Italia è un mercato molto interessante per tasso di risparmio, tasso di investitori istituzionali e soprattutto per il mondo del risparmio gestito e delle fabbriche prodotto, che nel nostro Paese trovano uno dei mercati principali».

A livello di flussi qual è la situazione, invece?

«Nonostante le varie crisi, gli investitori hanno ancora flussi attivi, sotto forma di contributi ai fondi pensione e alle Casse di Previdenza privatizzate, polizze etc. Nel 2023, nonostante il settore delle assicurazioni abbia avuto più riscatti che sottoscrizioni, abbiamo avuto circa una trentina di miliardi di nuovi flussi da investire. E sono stati prodotti proprio dai risparmiatori iscritti a Casse, fondi e altri sistemi previdenziali. Quindi, se consideriamo il patrimonio totale che le ho detto, con una duration tra gli 8 e 10 anni, e considerando i 608 miliardi del totale delle assicurazioni solo per il 15%, cioè la quota che le compagnie esternalizzano, vuol dire che ogni anno abbiamo scadenze per 43 miliardi, e di conseguenza il mercato deve investire o reinvestire oltre 70 miliardi di euro».

In generale, quanto tendono a esternalizzare questi investitori e quanto invece gestiscono in autonomia?

«Gli attori istituzionali in media destinano al Mercato la maggior parte dei flussi, addirittura il 78%, per lo più verso le fabbriche prodotto».

Rapportando il patrimonio dei fondi pensione al PIL l’Italia è solo 23esima con l’11,3%. A cosa è dovuto questo gap?

«Va detto che è evidente che non riusciremo a raggiungere soggetti come gli Stati Uniti, il Regno Unito, i Paesi Bassi o la Danimarca, che hanno tutti forme di previdenza obbligatoria con tassi di sostituzione – la percentuale di rendita che viene data – pari, quando va bene, al 35/37% delle ultime retribuzioni.

Noi in Italia abbiamo un sistema un po’ continentale e mediterraneo, per cui in passato i partiti hanno puntato molto sul pubblico, con dei tassi di sostituzione vicini al 70%, nonostante ci si lamenti che le pensioni siano misere, il che non è assolutamente vero. Se in parte lo sono è solo perché c’è una grande evasione fiscale. Basti tenere conto del fatto che, dei 16 milioni e 200mila i pensionati circa il 45% sono totalmente o parzialmente assistiti. In questi casi sì, le pensioni sono basse, ma a fronte di ancora meno contributi pagati, se non addirittura zero, quindi già un regalo che lo Stato e la collettività fanno loro. Per il resto, le pensioni sono basse per quelli che frodano o evadono il fisco. Quelli che invece pagano le hanno buone, il circa il 70% dell’ultima retribuzione.

Noi non raggiungeremo mai, dunque, quei Paesi lì, ma in relazione al valore dell’11,3% va fatta la specificazione di prima, cioè che considerano solo i fondi pensione, laddove per esempio per gli Stati Uniti considera i piani 401K, per la Svizzera o la Danimarca il terzo pilastro. In pratica, se noi dovessimo prendere 100 miliardi di euro di polizze assicurative su 608 e li chiamassimo terzo pilastro, ci classificheremmo molto più avanti».

Cosa si può fare per alzare questa quota?

«Abbiamo tanto margine per aumentare il patrimonio dei fondi pensione: potremmo tranquillamente raddoppiarlo nell’arco di pochi anni. Il vero problema è che dal 2007 l’Italia ha eliminato il fondo di garanzia per le piccole e medie imprese attivo allora, oltre ad alcune altre forme di agevolazione per le microimprese. Questo è inspiegabile: il risultato di questa manovra è che le aziende sopra i 49 dipendenti hanno un tasso di adesione superiore all’80%. Quelle con meno di 15 dipendenti, che peraltro occupano più della metà dei lavoratori dipendenti, hanno invece un tasso di adesione tra il 6%e l’8%.

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Il problema è che le aziende micro e piccole, che non hanno alcun finanziamento bancario, se non qualche volta dal credito cooperativo, adoperano il TFR come circolante interno. Consente loro di comperare le materie prime, pagare le tasse e le bollette. È normale, quindi, che tendano a tenerlo in azienda. Se però venisse ripristinato il fondo di garanzia che avevamo realizzato nel 2005, con un grande accordo con tutte le sigle sindacali e le associazioni, allora daremmo la possibilità a più della metà dei lavoratori di aderire ai fondi pensione.

Non è dunque questione di imporre il 25% obbligatorio, ma di assistere le microimprese e dare loro e ai loro dipendenti l’opportunità di accedere in modo democratico ai fondi pensione. Se facessimo così, avremmo la possibilità di raddoppiare il patrimonio nell’arco di 2/3, massimo 4 anni».

Sarebbe necessario anche un incentivo fiscale?

«Certo, bisognerebbe cambiare la tassazione. Il fondo pensione italiano è l’unico strumento, in Europa e nei Paesi industrializzati, che paga ancora la trattenuta annuale sui rendimenti. Bisogna rimediare a questo disastro: un trattamento fiscale che oggi è al 20% dopo essere stato alzato dalla quota precedente dell’11%, basato su un metodo arcaico. Oggi nel resto del mondo la tassazione si fa al momento del riscatto. Questa è una modifica che aveva fatto il ministro Visco, ma nel 2000. Siamo nel 2024, sarebbe ora di cambiare».

Dal rapporto emerge anche una quota di investimenti nell’economia reale del Paese non elevatissima, eccetto che per le fondazioni di origine bancaria. A cosa è dovuto questo?

«È un altro danno che ci portiamo dietro dalla riforma del 2007 che, oltre ad avere massacrato la previdenza complementare, ha anche diviso le aziende in due. Quelle con più di 50 operatori, se il dipendente non destina il TFR ai fondi pensione, devono darlo all’INPS perché lo usi per la spesa corrente. Il risultato è che in questi ultimi 10 anni 97 miliardi di euro sono passati dal circolante interno delle aziende all’INPS per spesa corrente.

In più, avendo cancellato tutte le norme che favorivano l’investimento nel Paese, i fondi pensione negoziali investono nell’economia reale solo il 3%. Ora, il grosso dei finanziamenti dei fondi pensione dipende dal TFR, che in questi 10 anni è stato pari a 90 miliardi. Ma quello che i fondi pensione hanno reinvestito nell’economia domestica è stato meno di 1/3. In pratica, noi abbiamo regalato ai Paesi nostri concorrenti 160 miliardi che sono stati sottratti all’economia reale».

Il rapporto Draghi sulla competitività dell’UE lancia l’appello per un nuovo “Piano Marshall” a livello europeo. Di questa nuova levata di fondi, 4/5 dovrebbero venire dal privato, dunque anche e in gran parte da investitori istituzionali. Dove e come possiamo trovare queste risorse aggiuntive?

«Il rapporto Draghi è perfetto. Se l’Europa vuole rimanere rilevante, non può fare come ha fatto la Germania per decenni: vivere importando beni a basso prezzo dalla Cina ed energia dalla Russia. Nel momento in cui i problemi del commercio internazionale sono forti, c’è la transizione energetica, con tutte le sfide sulla mobilità e l’energia, di colpo l’Europa si trova coi piedi per terra, essendosi resa conto che non produce chip né altre tecnologie strategiche. Calando questa prospettiva sull’Italia, diciamo che, se in totale ci sono circa dai 750 agli 800 miliardi da investire, vuol dire che per il nostro Paese si parla grossomodo di 35/40 miliardi in più l’anno. Diciamo che gli investitori istituzionali, con un patrimonio di circa 1.000 miliardi, potrebbero destinare cifre simili. Certo, ci vuole un incoraggiamento.

Al momento, gli incentivi sono assegnati in modo errato. Per fare un esempio, è stata fatta una legge per azzerare la tassazione sui rendimenti dei PIR (Piani Individuali di Risparmio) a vita, mentre negli stessi anni l’aliquota sui fondi pensione passava dall’11 al 20%. Ecco, questo è un problema. I PIR, che sono un ottimo strumento, sono però un prodotto speculativo, che volendo si può smontare anche dopo 5 anni. Il fondo pensione, invece, è fondamentale per i nostri giovani e meno giovani. Anche qui, avremmo bisogno che il Governo cominciasse a produrre incentivi fiscali per gli investitori istituzionali che puntano sull’economia reale. Se facessimo così per almeno 4 o 5 anni, potremmo già disporre di una trentina di miliardi di euro l’anno che procurerebbero buona parte della quota italiana di questi 750/800 miliardi».

In pratica, l’impalcatura degli investitori istituzionali c’è ed è matura abbastanza, ma mancano gli incentivi giusti?

«Innanzitutto, manca un fondo di garanzia, perché sennò tagliamo fuori dai fondi pensione più della metà dei dipendenti. E peggio mi sento se viene introdotto l’obbligo del 25%. Se già, di 90 miliardi sottratti all’economia reale delle imprese, ne abbiamo investiti in economia reale circa 25 in 10 anni, obbligando ora tutte le piccole imprese a versare il 25% rischiamo di lasciare a secco moltissime aziende. Questo è il punto vero: tu puoi ottenere una raccolta maggiore, ma dando il fondo di garanzia, mettendo le aziende e i dipendenti nelle condizioni di investire, non semplicemente obbligandoli. Con i passi giusti, potremmo arrivare anche a 400 miliardi o più dai fondi pensione. Si capisce, se incentiviamo a investire in transizione ecologica, digitale ed energetica, dando loro gli incentivi che abbiamo regalato ai PIR, saremmo perfettamente in linea e già pronti a nuovi investimenti».

«Tutto questo che ho detto sulla previdenza complementare può essere fatto rapidamente, compreso il semestre di silenzio-assenso. Il fondo di garanzia è già scritto, basta andare a prendere il vecchio protocollo e riaggiornarlo. Consta di 180 milioni, che però non vanno spesi subito, lo si può alimentare con 30 o 40 milioni l’anno per 3-4 anni. La tassazione anche. Tutte queste cose sono state già fatte in passato e peggiorate negli ultimi anni, ma i provvedimenti già ci sono. Se volessimo davvero “dare il gas” alla nostra economia, ci vorrebbe pochissimo, con questa serie di piccole cose. Bastano due giorni, non due mesi, per inserire quello di cui sto parlando nella legge di bilancio. Poi ci potrebbero attuare eventualmente anche ulteriori provvedimenti, ma questi sono i principali.

Dopodiché, bisogna rivalutare con serietà certe spese inutili. Tutte le iniziative volte a favorire genitorialità e natalità che abbiamo messo in campo sono inefficaci. Basta vedere l’esperienza del Canada, degli Stati Uniti, della Corea del Sud e della stessa Ungheria, dove a chi fa figli si abbuonano i debiti, ma non funziona lo stesso. Dobbiamo essere seri: i genitori fanno figli se hanno strutture che funzionano. Asili nido, scuole a tempo pieno, fino alle 17 almeno, con mense che funzionano e per periodi scolastici più lunghi. Siamo gli unici con tre mesi e mezzo di buco. Se facessimo questo, aumenteremmo l’occupazione e gli stipendi degli insegnanti, investiremmo nell’istruzione e otterremmo risultati migliori in termini di natalità che non dando la paghetta a chi fa figli». ©

Articolo tratto dal numero dell’1 ottobre 2024 de il Bollettino. Abbonati!

📸 Credits: Canva





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