Il governo tedesco stima che entro la fine del 2028 incasserà 51,3 miliardi di euro di tasse in meno rispetto a quanto previsto in precedenza. La conseguenza più immediata, spiega la Frankfurter Allgemeine Zeitung, è che si allargherà il fabbisogno finanziario nel bilancio statale, aumentando le difficoltà del governo guidato dal cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz. Entro la metà di novembre la coalizione formata dai socialdemocratici dell’Spd, dai Verdi e dai liberali dell’Fdp dovrà decidere come coprire le minori entrate: se ricorrendo a un maggiore indebitamento oppure tagliando le spese e aumentando le tasse. Scholz e i suoi alleati dovranno considerare che il rallentamento dell’economia, già da tempo in difficoltà, potrebbe far crescere ulteriormente le uscite legate ai sussidi sociali, aggravando la situazione.
Il problema è che i tre alleati di governo non sembrano essere d’accordo su niente: il 29 ottobre Scholz ha convocato un vertice con i rappresentanti dell’industria senza invitare il ministro dell’economia Robert Habeck, il leader dei Verdi; nel frattempo il ministro delle finanze Christian Lindner, il leader dell’Fdp, ha organizzato una sorta di controvertice, incontrando le piccole e medie imprese; nelle scorse settimane, infine, Habeck ha pubblicato un documento in cui illustra le sue idee per uscire dalla crisi.
La revisione al ribasso delle entrate fiscali è legata alle prospettive negative del settore manifatturiero e in generale dell’intera economia tedesca che, per la prima volta dai primi anni del duemila, potrebbe chiudere con una crescita anemica anche l’anno in corso, bissando il risultato deludente registrato nel 2023. Gli esperti ritengono, inoltre, che la stagnazione dovrebbe continuare l’anno prossimo.
In questi giorni, in particolare, è nell’occhio del ciclone la Volkswagen, il principale marchio dell’omonimo gruppo automobilistico che possiede, tra l’altro, l’Audi, la Porsche e la Skoda. Il 28 ottobre il consiglio di fabbrica (l’organo di controllo in cui siedono i rappresentanti dei lavoratori e che ha il potere di bloccare le decisioni più importanti) ha confermato che l’azienda intende chiudere almeno tre dei suoi dieci impianti in Germania, licenziare migliaia di dipendenti e ridurre gli stipendi del 10 per cento. Il grande sindacato dei metalmeccanici Ig Metall, che ha chiesto aumenti del 7 per cento in alcuni negoziati in corso con la Volkswagen, parla di “piani rabbiosi inaccettabili”, di una “pugnalata profonda al cuore di dipendenti che lavorano duramente” e promette una battaglia durissima.
I numeri del gruppo Volkswagen, intanto, continuano a peggiorare in modo inesorabile. Nel terzo trimestre del 2024 gli utili netti sono diminuiti del 64 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, arrivando a 1,58 miliardi di euro. Questo risultato è stato assicurato solo dal buon andamento di alcuni marchi, in particolare la Audi e la Porsche, che producono modelli di lusso. Sulla crisi – probabilmente la peggiore nella lunga storia dell’azienda – pesa soprattutto l’incapacità di adeguarsi a un mondo dell’auto che sta cambiando radicalmente.
La Volkswagen, come altri grandi protagonisti del settore, è stata spiazzata dalla concorrenza cinese, che sta inondando i mercati con auto elettriche avanzate tecnologicamente e dai prezzi imbattibili. Il colosso tedesco, inoltre, registra perdite fortissime sul mercato cinese, uno dei più importanti al mondo e da anni fondamentale per il suo fatturato. Ne avevamo parlato qui.
I problemi della Germania non riguardano solo l’automobile. Come scrive il quotidiano svizzero Neue Zürcher Zeitung, la produzione industriale dà segni di rallentamento dal 2018 in più settori nevralgici dell’economia nazionale, smentendo chi è convinto che si tratti solo di una crisi congiunturale. Quella tedesca è una crisi strutturale, le cui cause sono ben note e discusse da tempo: tra i fattori più importanti ci sono l’alto costo dell’energia, l’eccesso di burocrazia che frena l’innovazione, la carenza di manodopera legata all’invecchiamento della popolazione.
Il fatto che il governo in carica non sembri in grado di dettare una linea condivisa di politica industriale non è per niente incoraggiante, tanto più che un eventuale crollo della coalizione potrebbe dare un’ulteriore spinta ai partiti populisti, euroscettici e filorussi di destra (Alternative für Deutschland) e di sinistra (Bündnis Sahra Wagenknecht).
Il Fondo monetario internazionale ha raccomandato al governo di Berlino di investire di più nella propria economia. Ma per farlo serviranno nuovi fondi pubblici, per i quali magari sarà necessario rimuovere il tetto al debito pubblico reintrodotto dopo la pandemia di covid-19 e temporaneamente sospeso nel 2020 per affrontare l’emergenza sanitaria. Notoriamente, però, il tetto al debito pubblico è una sorta di limite invalicabile per l’Fdp di Lindner.
I guai tedeschi, sommati a quelli che sta attraversando la Francia (leggi qui), un’altra grande economia europea, non promettono niente di buono per il resto dell’eurozona e in particolare per l’Italia, che ha legami fortissimi con la Germania e comincia già ora a dare gravi segnali di rallentamento. Nel terzo trimestre del 2024 il tasso di crescita italiano è stato ampiamente inferiore a quello medio del resto d’Europa, Francia e Germania comprese; secondo la stima preliminare diffusa dall’Istat, il pil rimasto invariato. L’Istat ha spiegato il dato con la forte riduzione dell’industria, accompagnata da una lieve contrazione del settore agricoltura, silvicoltura e pesca.
La situazione attuale non lascia ben sperare per il 2025, un anno che per di più potrebbe segnare il ritorno di Donald Trump, le cui ricette economiche (per esempio l’applicazione indiscriminata di dazi per finanziare le casse dello stato) potrebbero costare caro non solo agli statunitensi ma anche all’Europa.
Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.
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