di ANTONIETTA MARIA STRATI – Quale futuro per i territori – soprattutto per la Calabria – se l’attuale programmazione dei fondi europei per la coesione ha portato a risultati insoddisfacenti? Se lo sono chiesto Luca Bianchi, direttore della Svimez e Ferdinando Ferrara, consigliere della Presidenza del Consiglio dei ministri, attraverso la pubblicazione de “I Quaderni Svimez”.
Un documento in cui viene scritto, nero su bianco, su come l’attuale programmazione, basata su obiettivi tematici generali, non risponde adeguatamente alle specifiche necessità dei territori. In parole povere, questo tipo di azione si è rivelata essere inadeguata per gli obiettivi di crescita o di riduzione dei divari, portando solo a risultati limitati.
«Questo approccio, gestito attraverso una governance multilivello – si legge – tende ad ridurre l’efficacia delle politiche di coesione so- prattutto nei contesti caratterizzati da una bassa capacità di spesa e/o qualità delle Istituzioni».
«Ne è prova – si legge – il fatto che l’Italia pur collocandosi al secondo posto in termini di risorse ricevute, non abbia riportato risultati eclatanti in termini di coesione. L’analisi della Programmazione 2014-2020, fatta nello studio Svimez, evidenzia un’allocazione distorsiva delle risorse, con una sproporzionata concentrazione su agevolazioni per le imprese a scapito di infrastrutture essenziali. Le conseguenze sono chiare: una riduzione di investimenti fondamentali in settori strategici come ambiente, ICT, mobilità e servizi sociali».
L’analisi ha nevidenziato come l’Italia si caratterizzi per una riallocazione delle risorse tra le diverse aree molto più pronunciata rispetto al resto dell’Europa. L’aspetto più critico è che si tratta di una ricollocazione distorsiva, in quanto in contrasto con gli obiettivi di sviluppo e riduzione dei divari regionali.
Al termine della programmazione, difatti, le risorse destinate a favore delle imprese superano i 9,2 miliardi di euro, che ne fanno, con il 31,7%, l’area con la maggiore quota di risorse, nonostante le agevolazioni non rappresentino lo strumento principale per attivare duraturi percorsi di crescita. Rispetto all’inizio della programmazione tali risorse sono aumentate del 68%, a fronte del 18% del resto d’Europa. Si tratta sicuramente di un dato preoccupante, soprattutto perché associato a scelte programmato- rie che hanno sacrificato risorse per la realizzazione di infrastrutture per lo sviluppo economico e sociale.
Al termine della Programmazione, le aree tematiche in cui erano presenti interventi infrastrutturali funzionali allo sviluppo e all’equità (aree ICT, green, mobilità e sociale) subiscono difatti una riduzione, rispetto all’allocazione iniziale, di circa 6 miliardi di euro.
Le cause, nel caso italiano, dell’inefficace composizione finale della Programmazione 2014-2020 vanno ricercate nella limitata capacità amministrativa e di spesa, nei comportamenti distorsivi legati alla possibilità di spostare risorse dei programmi europei sui così detti programmi complementari, nonché nell’eccessiva flessibilità delle riprogrammazioni legate alle emergenze pandemiche ed energetiche.
In particolare, a causa dell’insoddisfacente capacità amministrativa e qualità delle Istituzioni, con il susseguirsi degli anni e l’aumentare dei problemi di attuazione e di raggiungimento dei target di spesa, tende sempre più ad affievolirsi la rilevanza degli obiettivi strategici e di policy definiti all’inizio del periodo di programmazione.
Eppure, «la grande innovazione rappresentata dal dispositivo per la ripresa e la resilienza e le future sfide che l’Unione europea dovrà affrontare per competere e prosperare nei nuovi scenari economici e politici rendono quantomai urgente un ripensamento sul ruolo e sulle modalità di funzionamento delle politiche di coesione», scrivono Bianchi e Ferrara, evidenziando come «per affrontare le criticità del ciclo di Programmazione 2021-2027, è fondamentale un potenziamento della capacità amministrativa e un coordinamento più incisivo».
«Tuttavia – viene detto – è necessario andare oltre le misure attuali, abbracciando un nuovo paradigma basato sull’approccio performance-based del metodo Pnrr subordinando l’erogazione delle rate al raggiungimento di obiettivi mirati».
«Se ben congegnato – hanno spiegato – l’approccio performance based del metodo Pnrr rappresenta non solo una evoluzione del meccanismo di finanziamento delle politiche, ma anche strumento di policy vero e proprio. Infatti, definendo i risultati da conseguire e le condizioni da soddisfare affinché il finanziamento venga erogato, si incentivano specifici progetti o azioni in grado di influenzare in modo significativo e positivo il raggiungimento di quegli obiettivi».
Tale cambiamento di paradigma, permetterebbe quindi di allocare le risorse a disposizione in maniera più efficace rispetto agli schemi di finanziamento “tradizionali”. Questo si tradurrebbe in budget pubblici più efficaci, evitando che i finanziamenti fluiscano verso iniziative non perfettamente in linea con gli obiettivi.
L’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno è convinta che questa sia «una proposta di riforma concretamente percorribile nell’attuale quadro dell’Unione Europea, in grado di condurre a un sostanziale miglioramento dell’efficacia di queste politiche: Implementando il metodo Pnrr, non sarà più possibile spostare risorse dei programmi europei sui cosiddetti “programmi complementari” o su progetti funzionali al solo raggiungimento dei target di spesa, garantendo così che i fondi siano destinati a progetti realmente in grado di ridurre i divari territoriali».
«Affinché questa proposta possa essere efficacemente integrata nel dibattito europeo – viene ribadito –, è essenziale che rispetti i principi delineati dalle Istituzioni Ue».
La Svimez propone, infatti, un «Accordo di partenariato che stabilisca obiettivi quantitativi chiari e milestone territoriali, assicurando che i finanziamenti siano legati a risultati concreti. Ma la governance macroeconomica europea non può essere esclusa da questo progetto di riforma: solo un approccio integrato e coerente può garantire che la politica di coesione non rimanga isolata, ma contribuisca attivamente alla riduzione dei divari e al progresso dell’Unione».
«Si tratterebbe, sicuramente – hanno evidenziato – di un approccio più rigido rispetto all’attuale, che ridurrebbe fortemente la discrezionalità nella scelta degli interventi da finanziare da parte delle amministrazioni che gestiscono i programmi e delle istituzioni da cui dipendono. Con questo approccio, difatti, per essere ammesso al finanziamento non basta più che un intervento sia coerente con un generico obiettivo di policy, ma è necessaria la sua funzionalità al raggiungimento di un preciso target quantitativo».
«Stabilire chiaramente risultati e condizioni per ottenere il finanziamento, assicura pertanto che i fondi siano destinati adinterventi direttamente funzionali agli obiettivi di policy stabiliti», hanno detto ancora Bianchi e Ferrara, aggiungendo come «resta inteso che gli obiettivi di riduzione dei divari territoriali, della perequazione infrastrutturale, di assicurare servizi omogenei e di qualità, di accompagnare le regioni meno sviluppate nel percorso della doppia transizione sono perseguibili solo attraverso un approccio complementare con le altre politiche europee e vanno supportate, contrariamente a quanto avvenuto nel recente passato, con coerenti interventi delle politiche nazionali».
«Andrebbe pertanto posto in Europa, con più coraggio – hanno concluso – il tema del coordinamento tra la coesione e la governance macroeconomica europea complessiva, perché la politica di coesione non può essere lasciata “sola” a perseguire la riduzione dei divari che le politiche ordinarie spesso contribuiscono ad amplificare». i(rrm)
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