Le polemiche furibonde che da settimane hanno per epicentro il ministero della cultura – tra colpi bassi politici e risvolti tragicomici, accuse costruite ad arte e allegro chiacchiericcio giornalistico, errori palesi di conduzione e oggettive strumentalizzazioni – presentano, a considerarle con attenzione, un risvolto paradossalmente positivo e apprezzabile: mai nell’Italia recente s’era discusso così tanto di cultura in rapporto alla politica (o di politica in rapporto alla cultura, fa lo stesso).
E mai ci si era così tanto accapigliati per un dicastero in fondo minore se messo a paragone con altri: interni, economia, giustizia, esteri, difesa… Tanto che nelle trattative per la formazione dei governi, come si ricorderà sin dai tempi della Prima Repubblica, non è ai big di partito che esso viene abitualmente destinato, ma ai papabili della seconda fila. Incarico prestigioso, intendiamoci, quello alla cultura: tanto che lo hanno avuto figure eminenti di politici e intellettuali. Ma chi vada a leggersi i nomi dei ministri che si sono succeduti al Collegio Romano dal 1974 ad oggi scoprirà anche che l’hanno occupato dei quasi perfetti sconosciuti e talvolta personalità, per dirla educatamente, non di grandissimo spessore, che dietro di sé hanno infatti lasciato zero tracce e nessuna memoria.
Oggi pare invece che le sorti di questo governo, e quelle della stessa Repubblica democratica, dipendano da quel che accade al ministero della cultura. Divenuto evidentemente un simbolo. Ma di cosa esattamente? Per la sinistra, di decoro istituzionale, di corretta gestione amministrativa, di equa distribuzione delle risorse, di rispetto delle professionalità – tutto ciò che la destra, dacché l’ha preso in mano, non avrebbe saputo garantire. Per la destra, di lotta ad alcune storiche rendite di posizione e di affermazione di un maggiore pluralismo delle idee – tutto ciò che la sinistra, quando ha comandato in quelle stanze, ha in un caso favorito e nell’altro misconosciuto.
Valutazioni diametralmente diverse, si dirà, ma in realtà convergenti riguardo l’importanza che la sfera culturale, quella a guida o indirizzo pubblico-statale, evidentemente riveste ai fini della lotta politica, per darle quella sostanza legittimante e quella profondità strategica che sempre più sembrano mancarle. E questa, come accennato, sembrerebbe persino una buona notizia, in mezzo alle tante cattive o sconfortanti che leggiamo ogni giorno. Significa riconoscere che per fare politica occorre un solido retroterra di idee e pensieri.
Ma una lettura ottimisticamente paradossale della cronaca di queste settimane non può nascondere del tutto la posta in gioco effettiva. Che è purtroppo assai meno edificante. Nel senso che la contesa al limite ormai della rissa intorno al ruolo di questo particolare ministero pare nascondere, a destra come a sinistra, una visione della cultura che rappresenta, se non un errore vero e proprio, quantomeno una sua degradante semplificazione, peraltro involontariamente condivisa dai due campi in lotta.
Parliamo, da un lato, di una nostalgia politica che sconfina pericolosamente nell’anacronismo ideologico: quella, di vaga ispirazione illiberale se non vetero-totalitaria, per lo Stato-pedagogo e interventista: quello che investe in cultura con l’idea di orientarne i contenuti e che sostiene gli uomini di cultura con l’idea di utilizzarli come produttori-promotori di parole d’ordine, formule e schemi di pensiero funzionali al proprio mantenimento. La cultura dunque come strumento utile a costruire un consenso politico contingente, se non per comprarlo a spese dei contribuenti, non come substrato ideale e insieme di rappresentazioni mentali senza le quali una comunità organizzata non può sopravvivere al flusso agitato della storia.
Parliamo, dall’altro, del modello tipicamente contemporaneo del cosiddetto Stato culturale, che investe in cultura non in sé, in quanto manifestazione per eccellenza di libertà e creatività, che se autentiche possono persino rappresentare un problema o una minaccia per lo Stato stesso e in genere per l’ordine costituito, ma in quanto la ritiene fondamentalmente un fattore di sviluppo economico e di generico benessere sociale: il pendant funzionale del turismo organizzato e dell’intrattenimento di massa. La cultura intesa, in questo secondo caso, come attività promozionale, evento, spettacolo e divertimento collettivo, tralasciando il fatto che la sua funzione vitale, per ogni singolo individuo, sarebbe piuttosto quella di creare malessere, sollevare dubbi, ingenerare domande scomode e sgradevoli, minare certezze consolidate.
Se si capisse quanto poco adatte al nobile termine di cultura siano queste due concezioni – quella statal-dirigista e quella del partito degli assessori sul territorio, quella che insegue sogni di egemonia e quella fatta di rassegne, mostre e festival – forse certe odierne tensioni polemiche, al di là degli eventi contingenti che le hanno generate, si allenterebbero.
La sinistra comprenderebbe che in tema di cultura e di organizzazione della medesima non le spetta alcun monopolio per storia, morale o diritto: le idee sono di ogni colore politico e spesso non ne hanno nessuno. Non solo, ma se si ritiene che finanziarla sia un obbligo civile, allora occorre farlo considerandone tutte le sfumature ed espressioni, per non cadere nell’assistenzialismo a uso degli amici degli amici.
La destra, a sua volta, si convincerebbe del fatto che su questo terreno non ci sono casematte da occupare o strappare al nemico per prendersi chissà quale rivincita, bensì patrimoni ideali e valoriali (a partire dal proprio) da rivitalizzare dinnanzi alle sfide del tempo, invece che limitarsi a perpetuarne l’eredità in chiave testimoniale, retorica e acritica.
Insomma, troppe inutili brame intorno al ministero della cultura, senza nemmeno rendersi conto che la cultura germina e agisce, spesso solitaria e incompresa, fuori dalle sue mura per quanto vetuste e prestigiose.
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