Negli ultimi 80 anni il reddito per abitante in Europa, rispetto agli Stati Uniti, ha attraversato due fasi diverse. Alla fine della guerra, nel 1945, il reddito europeo si era ridotto a meno di un terzo di quello americano. Poi, anche grazie al Piano Marshall, l’Europa si riprese rapidamente: in 50 anni il divario con gli Usa era colmato. A quel punto, però – siamo a metà degli anni ’90 – la convergenza si è fermata e il divario ha ricominciato a crescere. Oggi il reddito pro capite europeo è di nuovo inferiore, di un 20% circa, a quello americano. Lo stesso andamento, a grandi linee, è stato registrato in Giappone.
C’è una spiegazione comune: negli anni Novanta, sia in Europa sia in Giappone, si è esaurita la fase di «crescita per imitazione»: una crescita basata sul copiare, e spesso migliorare, prodotti inventati dagli americani (pensate alle automobili tedesche, all’elettronica giapponese e anche agli elettrodomestici italiani). Quando un’economia raggiunge la frontiera della tecnologia, «crescere per imitazione» non è più possibile: bisogna innovare, saperlo fare. Il guaio è che le istituzioni che aiutano un Paese a «copiare» (grandi banche che offrono finanziamenti a lungo termine, grandi imprese con una forza lavoro stabile) non sono le stesse che servono per innovare. Che cosa serve per innovare? Un mercato dei capitali agile, pronto a finanziare idee nuove. Scienziati. E imprenditori, capaci di trasformare in imprese, appunto, quelle idee sviluppate nei laboratori delle università.
L’Iri, la grande conglomerata pubblica che negli anni Novanta, controllava quasi metà dell’industria italiana, non era adatta per innovare; lo stesso valeva per i conglomerati giapponesi, i keiretsu. Quando Steve Jobs lanciò il primo Mac di Apple, segnando la fine del predominio dell’Ibm nei computer portabili, Europa e Giappone persero il passo rispetto agli Stati Uniti. (Si legga a questo proposito un saggio illuminante del 2006, di D. Acemoglu, P. Aghion e F. Zilibotti, Distanza dalla frontiera e crescita economica).
Lo prova il fatto che se consideriamo, in ciascuna regione, le tre aziende che spendono di più in ricerca e sviluppo nell’Ue sono sempre state società del settore automobilistico. Al contrario, negli Stati Uniti i leader in R&S sono cambiati nel tempo. All’inizio degli anni 2000 appartenevano anche negli Usa al settore automobilistico e farmaceutico: oggi sono Alphabet, Microsoft e Meta, leader globali nel settore digitale. Questa evoluzione delle imprese è stata assente nell’Unione europea e spiega perché il nostro reddito pro capite da vent’anni scende, seppure lentamente, rispetto agli Usa.
Con l’avvento dell’intelligenza artificiale e con le esigenze poste dalla transizione verde, oggi siamo di fronte a un altro momento di rottura. Come sempre gli Stati Uniti sono stati i primi a rispondere a questo cambio di scenario. Senza porsi troppi problemi, anche grazie al fatto di poter stampare dollari, l’amministrazione Biden ha varato un programma straordinario (Inflation Reduction Act) di sussidi alle imprese per accelerare queste transizioni. Non è un caso se sono sempre più numerose le imprese europee che sfidano i propri governi: «Se non ci aiutate offrendoci sussidi comparabili a quanto ci offrono gli Stati Uniti, sposteremo i nuovi investimenti oltre Atlantico».
La rapidità e la dimensione della risposta americana non rischiano solo di farci perdere aziende, stanno anche influenzando l’adozione delle tecnologie verdi: oltre i motori elettrici, ci sono altre soluzioni tecnologicamente «neutrali» capaci di ridurre le emissioni di CO2. Una volta che il mercato è conquistato dagli Stati Uniti, però, cambiare tecnologia diventerà difficile. Inoltre i numeri sono così grandi che nessun Paese europeo, neppure la Germania, ha lo spazio fiscale per intervenire in solitaria.
Spostandoci dalle transizioni verde e digitale alla Difesa, con l’eventuale elezione di Trump potrebbe aprirsi l’incognita sulle spese per il sostegno all’Ucraina e, in prospettiva, per la Difesa europea. Allo stesso tempo, la crisi tedesca ci impone di ripensare i nostri modelli. Il «modello Merkel» — energia a basso prezzo importata dalla Russia e accesso al mercato cinese — non garantisce più la crescita, sia per ragioni geopolitiche, sia perché la transizione verde rischia di mettere fuori mercato molti produttori del vecchio Continente.
Sono tutti passaggi che richiedono investimenti enormi, non solo in capitale: pensate ai dipendenti delle aziende italiane che producono componenti per automobili, cioè l’intero triangolo industriale fra Padova, Torino e Bologna. Questi lavoratori devono essere o accompagnati verso un pensionamento anticipato, o riqualificati per poter essere occupati in altri settori. Investimenti che soltanto uno Stato può affrontare.
L’alternativa è non investire, potrebbe persino essere una scelta razionale: nell’intelligenza artificiale è probabile che sia già troppo tardi, come rischia di esserlo ormai nelle batterie. Rinunciando a investire, però, la caduta del reddito pro capite in rapporto agli Stati Uniti accelererebbe. Deve essere chiaro che cosa ciò significa: significa non poter più garantire ai nostri cittadini il tenore di vita e i servizi cui sono abituati e che sono il tratto distintivo dell’Europa.
Non si tratta di inventare una nuova politica industriale: quando lo fanno, gli Stati per lo più producono disastri. Si tratta di mettere aziende e lavoratori in grado di trasformarsi da soli. Questo vuole dire crediti di imposta agli investimenti, non decontribuzioni per l’assunzione di lavoratori. E soprattutto istruzione, cioè insegnanti ben pagati, se non vogliamo che dentro la scuola finiscano per restare i più scarsi. E una sanità efficiente, a sua volta necessaria per evitare che i giovani emigrino.
Il punto di arrivo — o forse dovremmo dire di ripartenza — è tanta spesa pubblica, e senza alzare troppo la pressione fiscale altrimenti persone e imprese si sposteranno altrove. È un’equazione che solo il debito può risolvere. Oggi l’Europa ha un attivo nel saldo delle partite correnti con l’estero di circa 350 miliardi di euro l’anno. Cioè investiamo fuori dall’Ue 350 miliardi l’anno. I mercantilisti applaudono: è un segno, dicono, della forza delle nostre imprese. Invece è un segno della nostra mancanza di visione. Esportare è importante, ovviamente. Ma è essenziale investire — investire nell’istruzione, nella sanità, nella riqualificazione dei lavoratori quarantenni. Se non ci crediamo e non agiamo compatti, rischiamo di fare la fine della famosa rana che muore tranquilla in una pentola d’acqua destinata a riscaldarsi lentamente fino a bollire.
27 ottobre 2024
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