In un mondo sempre più frammentato, la globalizzazione si ridimensiona, trasformando il commercio internazionale e le strategie produttive. L’innovazione tecnologica e la transizione energetica sono la chiave per superare le incertezze, ma solo una forte cooperazione tra Stato, imprese e istituzioni europee potrà affrontare le sfide odierne. L’analisi di Guido Trafficante, professore di Politica economica all’Università Europea e research fellow del Casmef presso la Luiss Guido Carli
26/10/2024
Gli eventi degli ultimi vent’anni circa (in particolare, crisi economiche, finanziarie, sanitarie e geopolitiche) hanno messo in discussione i pilastri su cui si basava l’economia globale.
L’apertura commerciale e l’integrazione nelle catene del valore globali sono entrate in crisi e si sono osservati fenomeni quali reshoring e friendshoring. In un mondo più frammentato, caratterizzato dalla creazione di blocchi, le relazioni geopolitiche giocano un ruolo cruciale negli scambi di beni, servizi e idee.
Per quanto sia difficile fare delle previsioni future, lo scenario più probabile appare una globalizzazione su scala ridotta in cui la politica peserà di più rispetto al passato nel determinare le relazioni commerciali tra paesi. Questa inversione di tendenza rispetto alla globalizzazione comporta costi diretti e indiretti, aggravati dall’attuale incertezza.
In Italia, la rilocalizzazione produttiva ha coinvolto un numero limitato di imprese: l’incidenza delle piccole imprese nel tessuto produttivo e la dipendenza dalle forniture estere sono fattori che rendono più difficoltoso rilocalizzare. Le imprese italiane devono rimanere connesse al commercio internazionale, mentre la politica economica dovrà mettere in campo misure che stimolino gli investimenti diretti esteri.
Questi ultimi, difatti, potranno rafforzare le competenze industriali dei distretti manifatturieri del “Made in Italy”, contribuire all’innovazione e all’adattamento delle imprese locali all’incerto contesto internazionale, generando in questo modo un circolo virtuoso di crescita del capitale umano e della competitività.
Pertanto, la presenza di multinazionali estere in Italia può essere considerata in molti casi come un elemento che contribuisce al rafforzamento delle economie distrettuali, specialmente se inserite all’interno di un contesto di filiera. Del resto, anche i dati mostrano che la presenza di multinazionali estere e, più in generale, la partecipazione alla catena globale del valore, forniscono un apporto rilevante al commercio delle imprese italiane.
L’incertezza coinvolge anche l’impatto del progresso tecnologico. Se, da un lato, l’automazione può ridurre la dipendenza dalla manodopera a basso costo, rendendo meno vantaggiosa la produzione internazionale, dall’altro, questi cambiamenti tecnologici potrebbero incidere sulla rilevanza della formazione continua e delle materie prime su cui queste tecnologie si basano.
Pertanto, l’effetto netto sul commercio internazionale potrebbe essere molto complesso e dipendere dalle specifiche circostanze, quali l’aumento delle tensioni commerciali e i costi delle materie prime.
Un mondo meno globalizzato rischia di essere più instabile e caratterizzato da minore efficienza, innovazione e crescita, almeno nel breve periodo. In questo contesto, lo Stato gioca un ruolo cruciale in due ambiti: 1) garantire che le alleanze internazionali riducano i rischi di frammentazione, 2) indirizzare la politica industriale sui settori strategici.
In tale contesto, il recente rapporto Draghi analizza in modo molto dettagliato le cause reali del ritardo tecnologico nell’Unione europea, formulando numerose proposte perché l’Ue torni ad avere un ruolo da protagonista nell’innovazione. La diagnosi della crisi economica europea e gli obiettivi in termini di sviluppo che il rapporto evidenzia sono sicuramente condivisibili.
Tuttavia, vi è il rischio che manchi la volontà politica di creare dei campioni europei in grado di competere con giganti come Google, Amazon e Huawei, come quando la Commissione europea ha bloccato il progetto di fusione di Siemens e Alstom. Altri ostacoli riguardano la gestione e il finanziamento degli investimenti necessari per incrementare la crescita potenziale europea.
I governi nazionali e la Commissione Ue riusciranno a gestire gli ingenti investimenti previsti dal rapporto? I singoli Paesi riusciranno a trovare un accordo sugli investimenti da finanziare con debito comune? Per fronteggiare queste criticità sarebbe auspicabile riunire allo stesso tavolo il settore pubblico e le imprese (incluse quelle del settore finanziario) per definire un’agenda comune.
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