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La richiesta del patteggiamento di Toti è stata accolta dalla Procura ed ora la parola passa al giudice. L’esito si saprà il 30 ottobre dopo le elezioni.

di Gianfranco Barcella

L’ex governatore, accusato di corruzione e finanziamento illecito ai partiti, reati per i quali è rimasto ai domiciliari dal 7 maggio scorso fino al 31 Luglio, ha dunque rinunciato a qualsiasi difesa nel merito ed al processo con rito immediato, fissato per il 5 Novembre. La Procura ha interpretato la scelta come una conferma del proprio impianto accusatorio, motivo per cui ha dato parere favorevole.

L’ex governatore però ha ribadito: “Come tutte le transazioni anche questa suscita sentimenti opposti; da un lato, l’amarezza di non perseguire fino in fondo le nostre ragioni di innocenza, dall’altro il sollievo di vederne riconoscere una buona parte. Resta quel reato <di contesto>, definito corruzione impropria, legato non ad atti, ma ad atteggiamenti: un’accisa difficile da provare per la sua evanescenza, ma altrettanto difficile da smontare per le stesse ragioni“.

Di fronte a questo finale– ha concluso Toticredo appaia chiaro a tutti la reale proporzione dei fatti avvenuti e della loro conclusione, che pone fine alla tormentata vicenda che ha pagato un’istituzione, oltre alle persone coinvolte, e che lascia alla politica il dovere di fare chiarezza sulle troppe norme ambigue di questo Paese che regolano aspetti che dovrebbero essere appannaggio della sfera politica e non giudiziaria”.

Il problema che le norme stilate dal potere politico dovrebbero, in democrazia, privilegiare sempre il bene pubblico, rispetto al bene privato, come ha sottolineato con mirabile sintesi l’Arcivescovo di Genova, Marco Tasca. L’avv. Mauro Cerulli del foro di Savona, di recente ha così commentato sui social: “A volte penso che alcuni giornali ci prendano per idioti o peggio. Scrivere che patteggiare una pena o essere prosciolti per intervenuta prescrizione significa essere innocenti è un’offesa all’intelligenza del lettore. Il Patteggiamento è stato introdotto nel 1989 e da allora mai ho fatto patteggiare un mio cliente che sapevo essere innocente, ma l’ho fatto solo quando la sua colpevolezza era conclamata e non era opportuno correre il rischio di una pesante condanna. Per quanto riguarda la prescrizione è bene sapere che questa viene applicata solo quando si reputa l’imputato colpevole, perché altrimenti si deve prosciogliere con formula piena. L’imputato che voglia il pieno proscioglimento può sempre rinunziare alla prescrizione. Ad esempio lo ha fatto un mio cliente in un processo di Tangentopoli dopo essere stato assolto in primo grado; in appello il reato era stato prescritto ma lui ha rinunziato alla prescrizione ed è stato assolto con formula piena, anche in appello. E’ bene che si sappiano queste cose per evitare che si spaccino per vittime, autori di reati”.

Dunque in Italia, il ricorso al patteggiamento è una ammissione di colpevolezza? A differenza di altri Paesi da noi pare proprio di no. Giovanni Toti in un’intervista al Corriere della Sera ha specificato che <fare un accordo non vuol dire necessariamente riconoscere le proprie colpe>. In Italia infatti il patteggiamento non presuppone un’ammissione di colpa, come avviene nella maggior parte dei Paesi Civili che prevedono qualcosa di simile. “E’ effettivamente una peculiarità del nostro sistema“, dice Gian Luigi Gatta, professore ordinario di Diritto Penale all’Università degli Studi di Milano: “Mi è capitato di dover spiegare questo concetto all’estero e di far fatica a farmi capire”. La giustizia cosiddetta <negoziale> si è affermata nei Paesi Anglossassoni ma si sta diffondendo molto in tutta Europa, e quasi sempre richiede un’ammissione esplicita di colpa. In Italia per ragioni storiche non è così, ma sul significato e la natura della richiesta di patteggiamento c’è un dibattito accademico che va avanti da anni, cioè da quando il patteggiamento è stato introdotto con il ‘Codice Vassalliì. (giurista, presidente della Corte costituzionale, ministro della Giustizia con i governi Goria, De Mita e Andreotti)

Da un lato infatti non è necessario che l’imputato confessi, ma dall’altro, scegliendo il patteggiamento, accetta di fatto di essere condannato come colpevole. Nel Codice di Procedura Penale (art.445), la sentenza di patteggiamento è infatti equiparata ad una sentenza di condanna. Secondo Mitja Gialuz, professore ordinario di Diritto Processuale penale all’Università di Genova “c’è ambiguità di fondo; il nostro legislatore non prevede un’ammissione, ma il patteggiamento non si spiega senza un’ammissione almeno implicita. Ci sono sentenze della Cassazione recenti che dicono che la richiesta di applicazione della pena deve essere considerata come ammissione del fatto”.

Il valore dell’aggettivo <implicito>, usato tra ieri ed oggi anche da molti avversari politici di Toti e da alcuni commentatori sui giornali è però piuttosto sfuggente: è un modo di sostenere che esista di fatto una cosa che non esiste palesemente. Il patteggiamento rientra nei cosiddetti riti processuali <alternativi>, che prevedono delle attenuazioni di pena poiché fanno risparmiare allo Stato il tempo ed i costi di un processo ordinario. Nel caso del patteggiamento lo sconto è fino ad un terzo della pena, ma solo nei casi in cui la pena dopo la riduzione non sia superiore ai cinque anni. Funziona così: il pubblico ministero e l’imputato si accordano sulla pena e poi il giudice decide se accettarla (nel caso Toti il giudice non si è ancora espresso).

Di fatto quindi una valutazione del giudice sulla responsabilità dell’imputato c’è; se il giudice stabilisce , sulla base degli atti, che il fatto non sussiste o che ci sono motivi per ritenere che la persona non sia colpevole, il patteggiamento viene rigettato. Il giudice può anche esprimersi sulla pena, e stabilire che non sia congrua, perché non sufficiente o perché eccessiva. Questa è naturalmente una forma di tutela per l’imputato, ma significa anche che se il patteggiamento viene accettato è perché il giudice non ha avuto motivo di pensare che l’imputato fosse innocente.

E’ diverso da quello che farebbe in un processo, perché non deve accertare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, ma deve comunque fare una valutazione. Allo stesso tempo ci sono motivi che potrebbero ipoteticamente spingere anche una persona non colpevole a patteggiare. Potrebbe farlo perché ritiene di non poter provare la propria innocenza, o per evitare un processo ordinario, che è pubblico e spesso lungo e costoso (spese legali). Ed eventuali parti civili da risarcire.

Il patteggiamento prevede poi, oltre allo sconto della pena, anche altri “premi” pensati appunto per incentivare le persone a patteggiare: uno di questi è che la sentenza non ha effetto fuori dall’ambito penale (per esempio per un eventuale giudizio disciplinare nei confronti di un dipendente pubblico si dovrà accertare la sua responsabilità, e non si potrà basare sulla sentenza di patteggiamento per sostenerla). Il fatto di non dover ammettere necessariamente la propria colpevolezza è un ulteriore incentivo per chi patteggia, ed è quindi nell’interesse dello Stato garantire questa possibilità.

Nel patteggiamento Toti ha chiesto di sostituire la pena detentiva di due anni ed un mese con 1500 ore di lavori di pubblica utilità: una pena sostitutiva della detenzione che dovrà cominciare subito dopo la sentenza. “E’ una decisione insolita– spiega Gattaperché se avesse patteggiato una pena detentiva poi avrebbe potuto chiedere comunque l’affidamento in prova ai servizi sociali. I tempi sarebbero stati più lunghi, ma sarebbe stata molto probabilmente una pena meno impegnativa. Si può ipotizzare dunque che lo scopo di Toti fosse quello di chiudere la vicenda il più in fretta possibile, evitando il processo e scontando subito la pena“.

Va ancora precisato per completezza dell’informazione che esistono due tipi di patteggiamento. L’articolo 444 c.p.p regola il cosiddetto <patteggiamento allargato> che è stato introdotto nel 2003. Questa forma di patteggiamento consente alle parti di accordarsi su una pena sostitutiva o pecuniaria, diminuita fino ad un terzo rispetto a quella applicabile, oppure su una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino ad un terzo, non supero i cinque anni. (Questa pena detentiva può essere accompagnata da una pena pecuniaria). La richiesta del ‘patteggiamento allargato’ è preclusa per determinati reati (sostanzialmente, reati sessuali, di terrorismo e di associazione mafiosa), nonché per chi sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza oppure in casi gravi di recidiva. In alcuni tra i reati contro la pubblica amministrazione, la richiesta è subordinata alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato. L’art. c.p.p. disciplina invece il cosiddetto <patteggiamento ristretto> o <tradizionale> quello a cui ha fatto ricorso Toti, che si differenzia da quello allargato, innanzitutto per il presupposto dell’entità della pena. Con il ‘patteggiamento ristretto’ l’imputato ed il pubblico ministero possono accordarsi su una pena detentiva che, tenuto conto delle circostanze e dimunuita fino ad un terzo, non superi i due anni (sola o congiunta a una pena pecuniaria).

In sintesi: fino a due anni e un giorno a cinque anni c’è il ‘patteggiamento allargato‘. Dai due anni e un mese del patteggiamento di Toti vanno tolti i quasi tre mesi trascorsi gli arresti domiciliari. In più il ‘patteggiamento ristretto‘, diversamente da quello allargato, non è soggetto né a limiti oggettivi, né a limiti soggettivi: è possibile per qualsiasi reato e per qualsiasi imputato.

A noi resta da esprimere solo qualche considerazione politica. Dal 1989 ad oggi dunque sono state approvate più di cento modifiche al processo penale ed ogni volta si è ricominciato senza una visione organica ed ideale ma solo in funzionedell’incapacità del sistema di garantire un processo democratico ed efficiente per i costi ed i tempi eccessivi. A quei tempi il procuratore generale della Cassazione, Vittorio Sgroi profetizzò vita breve e difficile per il neonato Codice di Procedura Penale. “Un anno di tempo per sopravvivere o morire“, fu la sua prognosi ad appena due mesi dall’entrata in vigore del Codice Vassalli-Pisapia. Correva l’anno 1990 e la giustizia che veniva già da decenni di acciacchi, puntava molto sulla riscrittura del vecchio Codice di Procedura Penale. Eppure quella riforma epocale si rivelò quasi subito un <vorrei ma non posso>, non solo per ragioni culturali che impedirono agli addetti ai lavori di realizzare ed apprezzare un nuovo modello di giustizia penale ma anche e soprattutto per quella cronica mancanza di risorse che al netto delle risorse normative o delle norme ad personam, da sempre segna il destino delle riforme, facendole vivere o morire; spesso modificandole genericamente.

La giurisdizione però si attua principalmente mediante il giusto processo, regolato da una legge rispettosa dei dettami costituzionali e ogni processo dovrebbe svolgersi nel contraddittorio tra le parti in condizioni di parità, davanti a giudice terzo ed imparziale e non con l’intesa della volontà delle parti quasi fosse un contratto. E la legge ne dovrebbe assicurare la ragionevole durata …(vedi art 111 della Costituzione). Ma se si dimentica, per risparmiare, anche l’art 32 della Costituzione non garantendo la salute ai meno abbienti e si spendono 7 miliardi per i jet militari ormai… Il ministro socialista Rino Formica disse: “La politica è sangue e merda“. La politica dovrebbe essere invece, quell’attività collettiva che aiuta a trasformare, in uno Stato democratico, la fragilità individuale in una forza collettiva.

Gianfranco Barcella

DA IL SECOLO XIX

 

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