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“Stiamo facendo la nostra parte”, ha detto Ursula von der Leyen, nella sua ottava visita a Kiev dopo la riconferma a presidente della Commissione Europea. “E sono sicura”, ha poi aggiunto, “che anche gli altri faranno la loro parte”. Per ora i conti dicono questo: l’Ue si prepara a prestare all’Ucraina 35 miliardi, gli Stati Uniti nulla. L’accordo raggiunto a giugno dai Paesi del G7 in Puglia sul maxi prestito da 50 miliardi per aiutare Kiev nella ricostruzione e nella difesa è rimasto in pratica lettera morta. Ma Bruxelles continua a confidare che, dopo le elezioni americane di novembre, Washington possa onorare i propri impegni e aggiungersi nel maxi finanziamento. Nel frattempo ha deciso di agire da sola. Come sta facendo in realtà da un po’ di tempo a questa parte: dall’inizio della guerra, l’Ue e i suoi Stati membri hanno mobilitato sempre maggiori risorse, arrivando a 118,3 miliardi di euro in assistenza umanitaria, finanziaria e militare all’Ucraina. Gli Stati Uniti invece nel 2023 hanno rallentato in modo marcato l’entità dei sostegni economici al Paese sotto attacco della Russia: dall’anno scorso il flusso di risorse in arrivo dall’altra sponda dell’Atlantico ha subito una drastica frenata, attestandosi intorno agli 80 miliardi di dollari.

L’Ucraina si prepara ad affrontare l’inverno più duro, con metà della rete elettrica fuori uso, infrastrutture prese di mira dai missili, esigenze di finanziamento costantemente in aumento sia per la gestione interna che per quella militare, e prestiti ricevuti da onorare. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, il fabbisogno finanziario ammonta a 38 miliardi di dollari per il 2025. È per coprire il grande deficit ucraino che a Borgo Egnazia, all’inizio dell’estate, i leader del G7 si accordarono per un prestito da 50 miliardi a Kiev. Secondo lo schema iniziale, Ue e Usa avrebbero dovuto garantire 20 miliardi a testa, il Canada altri 5 e il restante Regno Unito e Giappone. L’idea era di reperire sul mercato dei capitali le risorse da girare in più tranche all’Ucraina, mettendo a garanzia gli asset della Banca Centrale Russa, congelati dopo l’invasione militare. Nel momento in cui l’esercito russo ha oltrepassato le linee ucraine nel febbraio 2022, Mosca deteneva infatti circa 207 miliardi in asset in euro, 67 miliardi di dollari in asset in dollari americani e 37 miliardi di dollari in asset in sterline inglesi, oltre a partecipazioni per 36 miliardi di dollari in yen giapponesi, 19 miliardi di dollari in dollari canadesi, 6 miliardi di dollari in dollari australiani e 1,8 miliardi di dollari in dollari di Singapore. Le sue partecipazioni in franchi svizzeri ammontavano a circa un miliardo di dollari.

Sono in pratica le riserve valutarie di Putin attualmente sanzionate, di cui per gran parte custodite presso la camera di compensazione in Belgio Euroclear. Anche se fermi, questi soldi maturano interessi per un valore che si aggira intorno ai tre miliardi l’anno. E sono questi profitti che l’Unione Europea intende usare per ripagare il prestito contratto a favore dell’Ucraina. Problema: gli Stati Uniti hanno chiesto a Bruxelles di assicurare che le riserve siano congelate per un periodo di tempo lungo e comunque sufficiente a ripagare il prestito. Perché in alternativa avrebbero dovuto offrire ulteriori garanzie, coinvolgere il Congresso e prevedere un accantonamento di fondi propri. Al momento infatti il congelamento degli asset russi, come tutte le sanzioni fin qui adottate nei confronti di Mosca, deve essere riconfermato ogni sei mesi dal voto unanime dei Paesi membri. Tra questi, alcuni sono scettici sull’idea di disporre a lungo termine delle riserve russe per motivi di diritto internazionale e perché potrebbe diventare un ostacolo a un accordo di pace, anche se al momento non si vede all’orizzonte. C’è poi l’Ungheria che spesso ha usato il suo potere di veto sulle sanzioni per contrattare con la Commissione condizioni favorevoli su altri dossier europei, che esulano dal conflitto ucraino. A queste condizioni, la Casa Bianca ha fatto sapere di non poter partecipare al prestito sindacato come deciso al G7 italiano: se Budapest per qualsivoglia ragione dovesse bloccare il congelamento delle riserve alla scadenza semestrale, gli Stati Uniti dovrebbero garantire di tasca loro. In piena campagna per le presidenziali, la proposta è insostenibile. Almeno ora: prima che Joe Biden si ritirasse dalla corsa per la Casa Bianca e una vittoria di Donald Trump era data come probabile, Washington aveva tutto l’interesse a legarsi a un prestito duraturo per non far venir meno il sostegno nel caso di successo del tycoon. Ma come riportato da Politico, con l’ascesa di Kamala Harris l’impegno americano a sostenere Kiev, anche per via bilaterale, non sarà messo in dubbio, anche con altre modalità.

Bruxelles ha deciso di fare da sé. Assicurando ovviamente il rimborso del prestito con i profitti derivanti dagli asset russi immobilizzati. La novità politica della proposta odierna è che la sanzione che congela gli asset russi non durerà più sei mesi bensì tre anni. Così si scarica l’arma ricattatoria del veto opposta dall’Ungheria. Tuttavia la decisione di estendere la validità della sola sanzione sugli asset a tre anni deve essere presa all’unanimità, ed è quindi difficile che possa realmente essere approvata. Nell’immediato si è deciso perciò di ricorrere a un altro strumento, un prestito eccezionale di assistenza macrofinanziaria (Amf). Un’Amf speciale richiede il sostegno della maggioranza qualificata prima di entrare in vigore, oltre al via libera del Parlamento Ue.

Secondo quanto fatto trapelare da fonti europee, per la Commissione si tratta di una “novità fondamentale”, dato che il ripagamento del prestito erogato dall’Ue all’Ucraina sarà assicurato da un nuovo flusso di fondi. Ma la garanzia ultima sarà fornita dal cosiddetto headroom, o margine di manovra, che è la differenza tra il massimale delle risorse proprie per i pagamenti (cioè le entrate del bilancio europeo) e il massimale del bilancio a lungo termine per i pagamenti (cioè le spese). Questo margine funge da garanzia che l’Unione onorerà tutti i suoi obblighi finanziari e le passività potenziali in qualsiasi circostanza. In pratica, nel peggiore dei casi – ma il condizionale è d’obbligo, dato che l’headroom è posto a garanzia anche di altri prestiti europei, a partire dal Next Generation Eu – non dovrebbero essere gli Stati membri a coprire eventuali esposizioni ma il bilancio Ue, attingendo ai massimali approvati. 

Resta l’incognita sulla durata del conflitto. È altamente improbabile che la Russia possa negoziare una pace senza mettere sul tavolo la questione dello sblocco delle sue riserve. La decisione odierna di Bruxelles non chiude la porta all’ipotesi di uno scongelamento, ma presuppone comunque che i profitti maturati da questi asset resti nelle disponibilità europee per gli anni a venire. A occhio, almeno una decina. A meno che Mosca non decida di ripagare i danni di guerra, altra ipotesi altamente improbabile allo stato attuale. Si entra così in un terreno ignoto e mai sondato prima. Anche con il congelamento delle riserve, la proprietà resta comunque della Russia, che – in caso di risoluzione presto o tardi del conflitto – vorrà tornarne in possesso. Altrimenti si tratterebbe di una confisca, una strada sconsigliata dagli esperti legali della Commissione e anche dalla presidente della Banca Centrale Europea. 

“Passare dal congelamento dei beni alla confisca, e alla loro liquidazione, è qualcosa che deve essere esaminato con molta attenzione” perché “comincerebbe a violare l’ordine legale internazionale che si desidera proteggere, che si vorrebbe che la Russia e tutti i paesi del mondo rispettassero”, ha detto ad aprile Christine Lagarde replicando indirettamente alle pressioni che arrivano soprattutto da Washington di agire con durezza sulle riserve di Putin. Secondo la numero uno della Bce, infatti, dato che la maggior parte degli asset è bloccata nelle giurisdizioni europee, il danno reputazionale per l’euro sarebbe di gran lunga maggiore e quindi assolutamente da scongiurare. Il ruolo di riserva internazionale del dollaro, inoltre, mette gli Stati Uniti in una posizione totalmente diversa, e più favorevole, rispetto al vecchio continente. Perciò Bruxelles è stata costretta ad andare avanti da sola, mentre Washington ha applicato il principio del massimo rendimento – l’uso degli asset di Putin – col minimo sforzo – nessuna garanzia americana.


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