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Nelle prossime settimane il ministro Raffaele Fitto potrebbe essere confermato commissario europeo, con la responsabilità sull’attuazione dei piani nazionali di ripresa e resilienza. Fitto conosce bene il Pnrr, di cui ha seguito l’esecuzione e che ha più volte modificato. Questo passaggio potrebbe essere utile per varare, sia a livello nazionale sia a livello europeo, un programma di valutazione del Piano.

Ciò richiede anzitutto un lavoro sui dati: oggi i dati sulle spese e gli obiettivi sono formalmente disponibili ma nei fatti poco o per nulla fruibili. Provare per credere: andate sul sito Italia Domani, in teoria disegnato per rendere pubblico il monitoraggio del piano, e poi fateci sapere cosa ne pensate. Ma, assumendo che i dati possano in qualche modo essere raccolti, analizzare il Pnrr significa porsi tre domande: se gli stati siano materialmente in grado di spendere i denari assegnati, se le spese siano coerenti con gli obiettivi, e se tutto ciò servirà effettivamente ad alzare il potenziale di crescita del Pil nel lungo termine attraverso la transizione ecologica e digitale.

Sul primo punto, i resoconti – e la stessa esperienza italiana – mostrano che non è facile, per le amministrazioni, garantire l’esecuzione di lavori per un volume di investimenti multiplo rispetto a quello storico. La selezione dei progetti, le procedure d’appalto, le fasi esecutive impegnano risorse umane e tecniche che non possono essere date per scontate. Il che ci conduce al secondo quesito: si ha spesso la sensazione, e certo nel nostro paese, che il Pnrr non sia partito da una lista di necessità per le quali si sono cercate le disponibilità finanziarie, ma al contrario dallo sforzo di trovare utilizzi più o meno verosimili per i denari che erano stati messi sul tappeto. Non a caso, le spese evase con maggiore rapidità sono quelle transitate attraverso crediti fiscali che hanno ribaltato sul privato i soldi pubblici, come il superbonus. Ma con quale efficacia? L’evidenza è ancora aneddotica ma, per esempio, pochi giorni fa la Corte dei conti europea ha contestato la contabilizzazione verde di molti investimenti previsti nei Pnrr europei. La Commissione ha replicato difendendo i Pnrr, ma questo è solo uno dei tanti esempi disponibili. Ma soprattutto non è affatto ovvio che l’enorme iniezione di risorse a debito nell’economia europea abbia effettivamente promosso la crescita, se non ovviamente in misura limitata e congiunturale.

A dispetto della narrativa trionfalistica che vede nel Pnrr il nuovo Piano Marshall, è probabile che l’effetto sia stato piuttosto limitato. Come, d’altronde, fu per il piano di assistenza americana alla ricostruzione dell’Europa dopo il secondo conflitto mondiale: gran parte della crescita sperimentata dall’Europa post-bellica non fu causata dalla spesa pubblica ma dalle riforme che restituirono stabilità monetaria e (relativa) libertà economica al Vecchio continente, ripristinando la fiducia di consumatori e imprese. In principio, anche il Pnrr avrebbe dovuto legare riforme e investimenti ma, almeno in Italia, tutta l’enfasi è sulla spesa pubblica, mentre le riforme procedono al rallentatore e spesso danno la sensazione di essere mere operazioni cosmetiche.

Un serio lavoro di valutazione è necessario non solo per stabilire, ex post, quale contributo abbia dato il Pnrr alla crescita post-Covid, ma anche perché, prima di imbarcarsi in nuove impegnative avventure come da più parti si richiede, sarebbe bene avere piena contezza di ciò che è già stato fatto.

 

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