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Sono stati resi pubblici i risultati di due importanti report sull’Unione Europea, redatti rispettivamente da Enrico Letta (Much more than a market, aprile 2024) e Mario Draghi. Entrambi si sono soffermati sulla perdita di competitività dei Paesi che appartengono all’Unione rispetto agli altri grandi player su scala globale (USA, Cina, India), individuando una pluralità di cause: fra queste, in primo luogo, il ritardo tecnologico, l’eccessivo carico burocratico, la bassa qualità delle Istituzioni.

Secondo l’ultima rilevazione Eurostat del settembre 2024, il tasso di crescita dell’Eurozona a 27, nel secondo trimestre dell’anno, è stato solo dello 0,2%, a fronte della previsione dello 0,3%, aggiungendo la prevedibile recessione tecnica tedesca. In queste ricerche, un tema rilevante attiene anche alla capacità dell’UME di generare convergenza. Può essere, dunque, utile, avvalersi di queste analisi per provare a tracciare un bilancio degli effetti delle politiche per la convergenza – dopo tre cicli di programmazione (2000-2006, 2007-2013 e 2014-2020) – sullo sviluppo economico del Mezzogiorno. L’Italia, per l’attuale ciclo di programmazione (2021-2017), è il Paese che riceve la dotazione maggiore di finanziamenti europei e di cofinanziamenti nazionali, con la Polonia, e, al tempo stesso, quello che ne fa l’uso peggiore e che impiega più tempo per realizzarne gli obiettivi.

Il dibattito italiano sui fondi europei è spesso concentrato sulla rapidità della spesa e poca attenzione è dedicata agli effetti macroeconomici che questi producono. Occorre ricordare che le regioni oggetto dell’obiettivo convergenza sono quelle il cui Pil pro capite, misurato a parità di potere di acquisto, è inferiore al 75% della media comunitaria: si tratta di ciò che, nella terminologia della Commissione Europea, riguarda il Nuts-2 («nomenclatura delle aree territoriali statistiche»). Le regioni italiane interessate sono: Calabria, Campania, Puglia, Sicilia.

Prendiamo in considerazione due recenti studi empirici italiani: il primo dell’ufficio valutazione impatto del Senato della Repubblica (Assessing the impact of spillovereffects in EuropeanRegional Policy: evidence from Southern regions, Documento di valutazione n.1, aprile 2023); il secondo dell’Istat del giugno 2023 (La politica di coesione e il Mezzogiorno: vent’anni di mancata convergenza). Questi studi concordano su due evidenze:

In primo luogo, le politiche di coesione europee hanno avuto effetti molto eterogenei nelle aree nelle quali sono state realizzate, con effetti apprezzabili in molti Paesi dell’Europa dell’Est e, per converso, poco rilevanti per l’Italia meridionale. In quest’ultimo caso, i trasferimenti non riescono a indurre meccanismi di crescita auto-propulsivi e, dunque, rendono il Mezzogiorno strutturalmente dipendente da fonti di finanziamento esterne. L’Uvi rileva l’esistenza di effetti di spillover: macro-aree come il Mezzogiorno vicine a Paesi con Pil pro capite basso fanno registrare risposte peggiori ai finanziamenti europei rispetto a macro-aree per le quali i Paesi limitrofi hanno livelli di ricchezza superiori.

In secondo luogo, l’Italia è il Paese che fa registrare, fra i Paesi beneficiari, il più elevato grado di dispersione dell’allocazione dei fondi e gli effetti sul tasso di crescita decrescono al crescere di questi ultimi. Occorre poi considerare che l’allargamento a Est dell’Ume, riducendo il Pil pro capite della macro-area, espelle alcune regioni italiane dall’obiettivo 1, come è accaduto per la Basilicata, non a causa della loro crescita, ma come conseguenza puramente statistica della riduzione del valore medio del Pil pro capite europeo.

Il documento su «Aree tematiche e obiettivi strategici» dell’aprile 2022 (Comunicazione ai sensi dell’art.1, comma 178, Legge n.178/2020), in applicazione del ciclo di programmazione 2021-2027, propone una diagnosi condivisibile dello stato dell’economia meridionale: base industriale ristretta, poche imprese e troppo piccole, bassa propensione alle esportazioni e scarsa capacità innovativa. Fra le principali criticità dell’attuazione dei programmi comunitari, a p.47, si legge: «La riduzione numerica del personale delle pubbliche amministrazioni, dovuta a protratti “blocchi del turnover”, che hanno determinato un conseguente innalzamento dell’età media dei dipendenti, e una composizione obsoleta e con modeste capacità di innovazione, incapace di fornire le nuove competenze richieste da un contesto in profonda trasformazione».

Uno studio di Banca d’Italia (Aimone Gigio, L. e Camussi, S.A.M. Cambiamenti nella struttura qualitativa dell’occupazione, Banca d’Italia – occasional paper, Questioni di economia e finanza, 705, luglio 2022) evidenzia, che dal 2000 al 2020 i dipendenti pubblici nel nostro Paese sono diminuiti di circa 200mila unità, collocando l’Italia ai livelli più bassi fra quelli europei per numero di dipendenti in rapporto alla popolazione (meno del 6%) e per età media del personale (superiore ai 50 anni: età eccessiva, peraltro, per gestire la transizione digitale del comparto). Tenendo conto dei prossimi pensionamento, Unioncamere stima un fabbisogno, per il 2024, di 864mila nuovi ingressi.

Il costo dell’inazione, in questo caso, è altissimo: non solo si sprecherebbero ulteriori risorse comunitarie, con relativi cofinanziamenti nazionali, come in larga misura è già accaduto nei precedenti cicli di programmazione, ma si priverebbe il Sud di un importante sbocco occupazionale per le giovani generazioni, riducendo verosimilmente i flussi migratori, si metterebbe ulteriormente a rischio la realizzazione del Pnrr (che, in larga misura, dipende proprio dall’efficienza della P.a.), si rinuncerebbe ad ampliare il mercato interno, e, non da ultimo, si priverebbero le imprese localizzate nel Mezzogiorno degli effetti di complementarietà derivanti dal miglioramento delle competenze amministrative e gestionali nel settore pubblico (si pensi alla riduzione dei ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione, a puro titolo esemplificativo).



 

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