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«Quando ero vicedirettrice generale in Banca d’Italia c’era la fila di persone che venivano a presentarsi e a proporsi per una posizione. Tutti uomini. Ho preso il telefono e ho chiamato una dirigente impegnata nell’ambito delle pari opportunità per capire come mai non ci fosse neanche una donna»: Anna Maria Tarantola si infiamma ricordando l’episodio, lei che di avanzamenti nel suo lungo percorso ne ha fatti tanti, in alcuni casi da vera pioniera. Classe 1945, sino a poche settimane fa presidente della fondazione Centesimus Annus, è impegnata sul fronte dell’emancipazione femminile («che non vuol dire omologazione al modello maschile», precisa) e del diritto delle donne a lavorare ed essere madri, senza («inaccettabili») rinunce.

La sua storia parla da sola, sin dall’infanzia a Zorlesco, una manciata di abitanti vicino a Casalpusterlengo (Lodi). Figlia unica, amante dello studio, nata in una famiglia tutta sostanza e niente fronzoli (il papà Emilio impiegato alla Snam, la mamma Lucia casalinga ma pronta a lavorare quando ha dovuto farlo a seguito di un infortunio del marito) è cresciuta in un’Italia in cui il senso del dovere e una volontà di ferro erano le precondizioni per costruirsi un futuro. Ha sempre ottenuto borse di studio per merito («alle medie e alla ragioneria dalla Snam, poi dall’università, quindi dalla Banca d’Italia», riepiloga) il che le ha permesso di tracciare la propria strada e fare delle scelte altrimenti precluse. La laurea in Economia aziendale (con 110 e lode) alla Cattolica di Milano, nel ’69, fa riaffiorare il ricordo della contestazione studentesca. Luigi Frey, il suo professore, era dalla parte degli studenti tant’è che poi lasciò l’ateneo per trasferirsi a Trento. «Ero la sua assistente volontaria, facevo le esercitazioni e prendevo 5 lire ad esame. Lo seguivo, ma le barricate no, non le ho fatte. Ricordo le tende fuori, con alcuni docenti assieme agli studenti. Io tenevo le lezioni a casa mia, a Metanopoli, i ragazzi venivano lì e mia madre offriva le mele e il caffè… una situazione un po’ borderline», sorride. Era stato proprio Frey a mandarla in Inghilterra per la tesi («l’inglese l’avevo studiato, ma una volta lì è stata durissima… ho fatto una fatica pazzesca, riuscivo a leggere e comprendere il testo, ma parlare e capire gli interlocutori era tutt’altro»): un preludio al master alla London School of Economics, in cui era «l’unica donna su un’ottantina di frequentanti». La borsa dell’Einaudi non bastava a coprire le spese, «guardando le bacheche ho visto che cercavano un professore di economia in una scuola superiore tecnologica e, dopo un esame, mi assunsero… mi alzavo alle cinque di mattina, prendevo il treno a Victoria Station, nel primo pomeriggio tornavo all’università, e così riuscivo a pagarmi l’aereo per tornare a casa almeno a Natale e a Pasqua, e a comprare qualche libro in più».

Una formazione così mirata e completa in Economia aziendale le valse nel 1971 la chiamata in Banca d’Italia, dove sarebbe rimasta per 42 anni.

Cominciò a Milano, e così poté proseguire a insegnare alla Cattolica: «Conservo ancora la letterina con la quale Guido Carli autorizzava la docenza, spiegando che la Banca era orgogliosa di avere giovani che potevano dare un contributo anche a livello accademico perché questo sarebbe stato un arricchimento per la Banca stessa. Lo facevo al di fuori degli orari di ufficio», tiene a precisare. A via Nazionale l’ambiente era predominio degli uomini, «nella carriera direttiva eravamo meno di dieci donne», ricorda Tarantola che da Milano è poi passata a dirigere le filiali di Varese, Brescia e Bologna, quindi si è spostata a Roma dove è diventata Ragioniere generale (2006) per poi approdare alla Vigilanza l’anno dopo e, dal 2009 al 2012, ricoprire il ruolo di vicedirettrice generale (affiancando nel corso degli anni anche incarichi in organismi internazionali come il Banking Supervision Committee, che le hanno consentito di comprendere i punti di forza e le debolezze del sistema italiano).

Quanto è stato difficile farsi largo in un settore così marcatamente maschile, anche considerando che nel frattempo erano nate Cristina e Paola dal matrimonio con il commercialista Carlo Ronchi? «Ci sono volute tre cose: un impegno costante, al massimo, non ti puoi permettere di non essere preparata perché a un uomo si consente la superficialità, a una donna no; una grande capacità di organizzazione, avendo scelto di costruire una famiglia e quindi, di fatto, di affrontare un doppio lavoro; un’ottima salute, perché appena non stai bene la reazione è sempre la stessa: “eccole queste donne…”». Si ferma un momento, meditabonda, e poi aggiunge un quarto elemento: «Naturalmente è necessario un aiuto, ed è per questo che ho cercato di lottare per le altre. Mio marito non ha condiviso il lavoro di cura ma psicologicamente mi era molto vicino, ha appoggiato i miei progressi di carriera anche quando comportavano dei trasferimenti. I miei genitori mi hanno dato una grande mano e su questo non possono contare tutte, perciò bisogna sostenere le donne attraverso una rete di strutture che le metta in condizioni di non dover scegliere».

 

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