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Una montagna da 3mila miliardi di euro e un macigno da 100 miliardi di euro l’anno per pagare gli interessi. Al primo “traguardo” ci siamo (l’ultimo dato è 2.948 miliardi), il secondo è vicino (se la BCE non riduce i tassi in modo significativo arriviamo già a 90 miliardi). Il debito ci costa più di quel che spendiamo per l’istruzione, ha detto Fabio Panetta, governatore della Banca d’Italia al Meeting di Rimini. Tra queste due cifre, 3mila miliardi accumulati nel tempo e 100 miliardi l’anno, resta schiacciata la politica di bilancio italiana per sette anni, cioè il percorso temporale che dovrebbe riportare il disavanzo pubblico sotto il 3% (in realtà attorno all’1,5% per lasciare spazio di manovra nei momenti bui) e quanto meno impedire al debito di crescere ancora rispetto al prodotto lordo (siamo oltre il 137%, una stabilizzazione al 130% viene ritenuta possibile). Il primo incontro della maggioranza e del governo dopo le vacanze non poteva che partire da qui.



Il comunicato finale parla di fisco, famiglia e imprese, non ci sono proposte concrete, su queste dovrà lavorare Giancarlo Giorgetti alle prese con un percorso ancor più complicato del solito. Si comincia con il Piano strutturale di bilancio (PSB), la cornice dentro la quale dovranno stare tutte le leggi di bilancio così da rispettare le nuove regole del Patto di stabilità. Il documento dovrà essere preparato in settimana dal ministero dell’Economia e presentato al Consiglio dei ministri non più tardi del 10 settembre, in modo da dare al parlamento una settimana di tempo per discuterlo e presentarlo all’Unione Europea entro il 20 di questo mese.



Non è finita qui, perché entro il 15 ottobre Roma dovrà inviare a Bruxelles la manovra per il 2025, cioè la legge di bilancio che il parlamento deve approvare entro il 30 novembre. Dunque, sono due mesi di fuoco, nel corso dei quali il governo cammina su due piani paralleli e nello stesso tempo convergenti (un paradosso della geometria euclidea, ma un dato di fatto della politica italiana): da un lato il percorso di più lungo periodo per sistemare i conti, dall’altro gli interventi per il prossimo anno.

In assenza di dati concreti, ragioniamo sulle parole e sugli annunci. Emerge finora un atteggiamento di estrema prudenza. Il dossier pensioni, il più pesante, viene accantonato. È una bomba a orologeria che va disinnescata, ma non si capisce ancora come. Meglio dimenticare ipotesi di uscite anticipate (a quota 41 come si dice) anche perché tra i Paesi dell’UE l’Italia è quella dove oggi si va in pensione prima: meno di 33 anni di lavoro rispetto ai 36,8 della Francia, i quasi 40 della Germania, per non parlare dei 43 della Svezia, record assoluto. Sarebbe difficile inserire nel piano strutturale un’ulteriore riduzione con i costi che comporta.



Giorgia Meloni ha dichiarato che con lei al governo è ora di mettere fine “alla stagione dei soldi buttati dalla finestra e dei bonus”. Un ottimo proposito, ma non sarà facile spezzare la gabbia dei bonus. A parte quello edilizio che getta ancora la sua lunga ombra, da dove cominciare? Dalle famiglie? Non sia mai, la sola ipotesi ha provocato reazioni irritate e rapide smentite. Il sostegno più costoso è quello sanitario (quasi 4 miliardi per oltre 10 milioni di beneficiari), poi i mutui per la prima casa (730 milioni di euro) e via via gli altri (istruzione, assicurazione, ecc.). Intervenire è difficile e comunque i risparmi non saranno sufficienti. C’è poi tutta la giungla fiscale: tra deduzioni, detrazioni, crediti di imposta, annessi e connessi si calcola che esistano ben 625 provvedimenti che sottraggono almeno 105 miliardi al bilancio dello Stato. Disboscare è fondamentale anche per aprire spazio alla riforma fiscale, ma il viceministro Maurizio Leo potrà davvero impugnare il machete?

Intanto anche lui, dopo aver promesso una riforma strutturale, va avanti a spizzichi e bocconi, con interventi rinnovati anno su anno. Adesso si tratta di prorogare l’Irpef a tre aliquote e confermare la riduzione del cuneo fiscale. Sarà il pacchetto più consistente, circa 15 miliardi di euro, due terzi dell’intera manovra. La Lega vorrebbe ampliare la flat tax, Fratelli d’Italia estendere i benefici fiscali a chi guadagna 60mila euro l’anno, ma per il momento mancano le risorse. È vero che l’aumento delle entrate fiscali offre margini non previsti, ma una quota va considerata una tantum perché proviene dalle banche grazie all’aumento dei margini d’interesse destinato ad esaurirsi. Il resto è dovuto all’aumento dell’occupazione, che potrebbe anch’esso ridursi con il rallentamento della congiuntura nei prossimi mesi.

Aspettiamo di vedere qualche cifra attendibile, fino a questo momento manca una chiara indicazione su come ridurre la spesa pubblica corrente: sono 659 miliardi di euro esclusi gli interessi sul debito, ben 188 miliardi riguardano la previdenza e l’assistenza. È tradizione che, vista la difficoltà di tagliare le uscite correnti, si preferisca intervenire sulle spese in conto capitale (118 miliardi quest’anno). Il PNRR nei prossimi due anni potrebbe compensare la riduzione degli investimenti. Ma cosa toccare, i 50 miliardi di contributi alle imprese? La Confindustria sta già preparando le barricate. L’impressione è che la prudenza non si sia sufficiente, ci vorranno coraggio e ambizione.

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