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La finanziaria 2025 è fondamentale per evitare l’estinzione del ceto medio italiano, per non privare il Paese della capacità di intrapresa, crescita e sviluppo tipica di una fascia sociale che annovera quadri, piccoli imprenditori, lavoratori autonomi che con il loro lavoro e, soprattutto, con le loro tasse tengono a galla l’Italia.

Secondo una ricerca condotta dal Censis in collaborazione con la Cida sul «Valore del ceto medio per l’economia e la società”, emerge chiaramente come i destini del Paese siano legati a quadruplo filo allo stato di questa parte della società italiana. Un ceto che ha una fortissima correlazione con l’andamento dell’economia e con la crescita del Pil.

Peccato solo che negli ultimi vent’anni, i redditi reali degli italiani siano calati, quando sono cresciuti negli altrigrandipaesi europei: se nel periodo 2001-2021 il reddito disponibile netto delle famiglie pro capite è cresciuto del 7,3% in Germania e del 9,9% in Francia e del 9,7% nella media europea, in Italia questo è calato del 7,7%. E il calo è stato più pesante proprio tra il ceto medio, specie quello del lavoro autonomo, colpito sia dal rallentamento dell’economia a partire dal crollo del 2008, sia dallo scellerato blocco delle attività durante la pandemia da Covid, con tanti piccoli operatori del commercio, dei servizi e delle professioni lasciati in balia di sé stessi con indennizzi ridicoli, quando per i dipendenti gli stipendi pubblici e privati sono continuati a scorrere.

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Non solo: per evitare l’estinzione del ceto medio c’è il problema della tassazione abnorme che grava su coloro che guadagnano più di 35.000 euro lordi all’anno, che hanno agevolazioni sociali sempre più ridotte, con il risultato di dovere sopportare direttamente tutti i costi, mentre coloro che guadagnano fino a 24.000 euro lordi all’anno sono praticamente esenti, sia sul fronte degli obblighi fiscali che dei costi dello stato sociale.

Tutti i governi degli ultimi vent’anni hanno fatto macelleria sociale del ceto medio, ritenendo a torto che fosse in grado di cavarsela da solo, sbagliando, perché a furia di non dare biada al cavallo della crescita e dello sviluppo anche questo si è fermato.

E poi, a pesare c’è stata la demagogia di ritenere ricco colui che guadagna 60.000 euro lordi all’anno, il che significa circa 3.000 euro netti al mese, sì un buon stipendio, ma sicuramente non da nababbo. Di fatto, la politica dei governi tecnici e del centro sinistra ha agito da pialla sociale, colpendo il ceto medio più della classe popolare, tenuta quasi indenne dalla crisi economica.

A pesare sull’estinzione del ceto medio c’è anche il fatto che la mobilità sociale in Italia pare essersi interrotta, con il blocco dei vari comparti, con il titolo di studio che oggi non comporta più una maggiore capacità di reddito e di spesa. Anche in questo settore, in trent’anni, secondo il Censis, la media degli stipendi italiani è cresciuta del 3% contro il 30% di Francia e Germania e del 40% della Gran Bretagna, con tanti giovani laureati sottoimpiegati e sottopagati prigionieri di lavori a termine e di contratti capestro.

Per riattivare la mobilità sociale serve più equità nella distribuzione del carico fiscale e, soprattutto, maggiore premialità del merito, dove i più bravi devono essere messi in grado di crescere sia nelle responsabilità e nella loro capacità di reddito senza essere brutalmente tosati dal fisco che ruba il 50% del reddito.

Quanto all’equità, lo stato sociale dovrebbe intervenire a capire perché nei primi sei mesi del 2024 sono state presentate ben 49.000 domande di pensionamento di cui i due terzi da parte di soggetti sconosciuti al fisco e all’Inps, in quando non hanno mai versato un euro di tasse o di contributi previdenziali, anche se per le leggi previdenziali vigenti avranno comunque diritto ad una pensione di 680 euro netti al mese, un importo talvolta più alto di quelle incassate da lavoratori a basso reddito che hanno versato una vita di contributi.

Poi, ci sarebbe da intervenire sui quelle 157.000 persone che incassano da oltre 40 anni una pensione di vecchiaia o di reversibilità, che secondo l’Inps al primo gennaio 2024 sono 95.045 per il settore privato e 62.034 per quello pubblico. Non solo: sono ben 18.717 le pensioni liquidate prima del 1980, quindi con oltre 45 anni di anzianità. L’età media al momento della liquidazione delle pensioni attualmente ancora in essere con una decorrenza prima del 1980 è di 52,3 anni, mentre l’assegno medio mensile per il settore privato è di 1.020 euro. Per il settore pubblico sono in vigore da prima del 1980, 13.311 pensioni di vecchiaia con un assegno medio di 1.607 euro al mese. A tutti costoro chiedere un maggiore contributo alla partecipazione dello stato sociale dovrebbe essere il minimo sindacale.

 

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