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Sono la croce di ogni governo. All’approssimarsi dell’appuntamento con la manovra economica, torna in ballo il tema delle tax expenditures. Per far quadrare i conti ed evitare di mettere nuove tasse, il bacino a cui attingere è quello delle spese fiscali, un complesso di detrazioni, deduzioni, sconti vari, note anche come tax expenditures, concessi negli anni spesso come mancette elettorali e che pesano come macigni sui conti pubblici. La scommessa è fare un’operazione chirurgica, tagliando lì dove non si scatenano eccessivi mal di pancia da parte delle categorie interessate e beneficiate. Si tratta quindi di individuare quelle piccole spese fiscali che non pesano più di 10 milioni di euro ma possono comunque portare un po’ di ossigeno al bilancio dello Stato evitando di cadere nelle sabbie mobili delle maggiori imposte.

Dal conto stilato dall’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), di fatto l’authority italiana dei conti pubblici, le spese fiscali hanno avuto una crescita esponenziale in termini di numero e valore, passando da 486 nel 2018 alle 625 censite attualmente, con un mancato introito per le casse statali che è quasi raddoppiato, da 54 a 105 miliardi annui, cioè circa 6 punti di pil. Una cifra enorme, che si aggiunge ad altri importi a carico della collettività e che sono spesso il frutto di scelte politiche dettate da motivazioni momentanee o elettorali, i cui effetti finanziari si trascinano poi per generazioni aumentando il debito pubblico. Attualmente circa 3 italiani su 4 fanno ricorso a una o più della varie detrazioni. Secondo l’Upb, il beneficio medio si attestava nel 2021 a 175 euro e solo il 4% dei contribuenti aveva un alleggerimento d’imposta sopra i mille euro.

Il governo punta molto sul disboscamento di queste voci, tant’è che è stata creata presso il ministero dell’Economia, una commissione ad hoc, guidata dall’economista Mauro Marè, che ha lo scopo di passare al setaccio le spese fiscali per vedere dove si può affondare il bisturi.

Il problema principale è che le detrazioni applicate all’Irpef, sono concentrate sui contribuenti con reddito più elevato: il 50% dei meno abbienti ha circa il 15% delle detrazioni totali (come rileva l’Upb) mentre il 26% riguarda il 10% più ricco.

In molti hanno provato a disboscare questa giungla ma senza risultati rilevanti, perché alla fine hanno prevalso gli interessi corporativi e non se n’è fatto nulla. Ma per il governo Meloni se vuole mantener fede alla promessa di tagliare le imposte al ceto medio, la strada è obbligata. Solo per confermare le misure per il 2024, tra cui soprattutto la fiscalizzazione degli oneri sociali e i tre scaglioni Irpef, serviranno 18 miliardi.

Le detrazioni sono prevalentemente per redditi da lavoro dipendente e pensione (63%), cerchi di famiglia (17%), oneri detraibili (7,6%), spese per recupero edilizio (11,4%) e spese per il riarmo energetico (2,9%).

Dal rapporto della Commissione Marè risulta che tra il 2022 e il 2023 il numero delle spese fiscali non è aumentato ma è rimasto sostanzialmente immutato. Più della metà di queste presenta un costo inferiore a 10 milioni di euro. Cancellandole tutte si ricaverebbero almeno 400 milioni.

Viene sottolineato che «molte hanno un valore medio molto basso, un numero di beneficiari molto contenuto e parecchie voci hanno importi trascurabili e non stimabili». Si dice chiaramente che «la political economy delle spese fiscali nel nostro Paese, ha poco a che fare con obiettivi tributari , di efficienza o distributivi: esse sono in prevalenza un sussidio tributario che emerge nel processo di scambio con i gruppi di pressione».

La Commissione ha valutato per 411 misure delle 555 vigenti, gli effetti finanziari che ammontano a circa 96,3 miliardi di euro per il 2024, 95,9 miliardi per il 2025 e circa 96,5 miliardi per il 2026. Il maggior costo per il bilancio è rappresentato dai vari bonus edilizi che da soli rappresentano il 40% del totale delle spese fiscali censite, per un ammontare di circa 38 miliardi di euro per il 2024. Ma su questa voce i margini di manovra sono molto risicati.

Va ricordato che la delega per la riforma fiscale punta a salvaguardare una serie di detrazioni: per i redditi da lavoro e pensione, impresa, famiglia, salute, persone svantaggiate, arte, cultura, ricerca, istruzione, ambiente, innovazione tecnologica. Le detrazioni per le spese sanitarie effettivamente godute valgono 3,8 miliardi e sono utilizzate da 18,7 milioni di contribuenti mentre quelle per interessi sui mutui per l’acquisto dell’abitazione principale valgono 730 milioni e ne usufruirono 3,7 milioni di persone.

Il rapporto della Commissione ha messo in evidenza che su 625 misure di spesa, ce ne sono 145 che generano una spesa inferiore a 10 milioni di euro. Tra queste il numero maggiore riguarda l’Irpef (49), il credito d’imposta (19), Iva e accise ( 13 ciascuna classe); seguono l’imposta di registro di bollo e ipocatastali (12), l’Ires (8), Irpef/Ires, imposte di successione (6 per ciascuna class di costo) e altre (6). A queste si aggiungono 144 misure non quantificabili ma di cui la maggior parte riguardano l’Iva (38) e le imposte di registro e di bollo (32) e 78 senza effetti di bilancio.

La politica ha mostrato finora una notevole affezione allo strumento delle tax expenditures e un notevole inventiva, dato che la maggior parte di detrazione, esclusioni, riduzioni e simili riguardano gruppi limitati di contribuenti e settori produttivi o di attività sociale circoscritti. Come ad esempio gli sgravi per le locazioni dei fondi rustici, la flat tax per i raccoglitori di erbe officinali, l’esclusione dell’accisa per le miscele gassose biologiche autoprodotte. Per far quadrare la manovra da 25 miliardi servirà un’azione di cesello e soprattutto un accordo politico nella maggioranza.



 

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