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ROMA. Le vacanze di Giorgia Meloni e dei suoi ministri stanno per finire. Venerdì la premier ha un appuntamento a Palazzo Chigi con Matteo Salvini e Antonio Tajani. Dimenticate le polemiche estive sullo ius scholae e la riforma delle autonomie. La prima e unica priorità della maggioranza di governo è la legge di bilancio per il 2025. Dimenticate anche le promesse di meno tasse e uscite anticipate dal lavoro. Per confermare gli sgravi sui redditi medio-bassi in vigore servono 18 miliardi, e c’è da fare i conti con il nuovo patto di stabilità, altri dieci miliardi di euro. Come ogni fine estate, le promesse lasciano il passo alle ipotesi su che fare per risparmiare.

In cima alla lista c’è sempre la voce pensioni, che costano trecento e più miliardi di euro all’anno, più di un terzo del bilancio pubblico. L’ipotesi è di allungare le cosiddette finestre temporali per l’accesso alla pensione solo sulla base dei contributi e indipendentemente dall’età. Oggi è possibile farlo con 42 anni e dieci mesi di contributi (se donne 41 anni e dieci mesi) e la finestra è di tre mesi dal momento in cui si maturano i requisiti: dal 2025 i tecnici propongono di allungarla a sei o sette. Risultato: l’uscita dal lavoro scatterebbe dopo 43 anni e quattro mesi (se donne 42 anni e quattro mesi), o addirittura 43 anni e cinque mesi in caso di allungamento fino a sette mesi. L’allungamento delle finestre è la tipica misura politicamente morbida: costa un piccolo sacrificio a chi la subisce, può garantire risparmi superiori al miliardo di euro.


Per Meloni la prossima finanziaria sarà un percorso a ostacoli per imporre sacrifici senza perdere consenso. L’ipotesi di tagliare le agevolazioni fiscali sui redditi alti è una variante del genere. Nella scorsa manovra sono state ridotte ai redditi superiori ai 120mila euro, una piccolissima fetta dei contribuenti. Ora per ottenere risparmi consistenti si sta vagliando un taglio dai cinquantamila euro in sù, ma ovviamente a fare la differenza saranno le detrazioni interessate. Fin qui il governo ha smentito ogni idea di ridurre quelle per i mutui sulla prima casa, farmaci o spese mediche. Ma per ottenere risparmi significativi occorre mordere. Se ne parla da almeno quindici anni, e mai nessun governo ha avuto il coraggio di farlo. Invece di diminuire, negli anni sono aumentate: l’ultimo censimento – comprende gli sconti sui tributi locali – parla di più di seicento eccezioni che drenano ogni anno un centinaio di miliardi: circa il doppio di quel che si spende ogni anno per il finanziamento della scuola pubblica.

Le probabilità dell’ennesimo falso allarme sono alte. E però, senza l’uso serio delle forbici, ci sono buone possibilità che il governo fatichi a far tornare i conti. Basti dire quel che rischia di accadere con il nuovo concordato fiscale per i lavoratori autonomi, il sistema che dovrebbe permettere di pianificare le tasse da pagare, in cambio di un (piccolo) aumento del reddito dichiarato. Il governo ha promesso due miliardi di entrate aggiuntive, ma sarà quasi certamente il remake di un film già visto: nel 2003 l’allora governo Berlusconi pronosticò 3,5 miliardi, incassò effettivamente poco più di cinquanta milioni.

Uno dei problemi politici emergenti è l’ormai enorme disparità di trattamento fra i lavoratori dipendenti con redditi superiori ai trentamila euro e le partite Iva: se i primi pagano un’Irpef che oscilla fra il 35 e il 43 per cento, un qualunque autonomo che dichiari fino agli 85mila può contare su una tassa piatta del 15 per cento. Il viceministro delle Finanze Maurizio Leo ha promesso sgravi ai primi, peccato che per realizzarli occorrono (molti) fondi. Non solo: se Meloni dicesse sì, si troverebbe sul tavolo ben altre richieste. Una delle più costose – un evergreen di Forza Italia – è l’aumento delle pensioni minime, una misura dai costi spropositati.


 

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