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La Cina è stato un elemento chiave della crescita non inflazionistica del ventennio pre-covid. Grazie ai massicci investimenti nelle sue industrie e infrastrutture il paese è stato per tanti anni la locomotiva del mondo.

Con l’adesione al World Trade Organization del 2001 si è aperta al commercio internazionale: le sue aziende hanno conquistato una quota crescente delle esportazioni del mondo; ma con lo sviluppo il paese è diventato anche un grande mercato per l’occidente.

La Cina ha poi bloccato l’accesso ai colossi americani della tecnologia per promuovere i propri (i vari Alibaba, JD.Com, Tencent, Xiaomi, Pinduoduo, Meituan), sfruttando però il mercato internazionale dei capitali per finanziarne la crescita.

Rischio geopolitico

In pochi anni la collocazione della Cina nel mondo è cambiata radicalmente. La svolta nazionalista di Xi Jinping ha posto l’annessione di Taiwan come obiettivo della sua Presidenza; e con Russia e Iran guida un blocco in chiave anti-occidentale. Una svolta che ha creato un rischio geopolitico con cui l’Occidente ha dovuto confrontarsi per la prima volta.

Il timore che il trasferimento di tecnologia e know how possano essere utilizzati a scopi militari o spionaggio pone vincoli al commercio internazionale e agli investimenti diretti. La crescita trainata dalle esportazioni ha ampliato i disavanzi commerciali con gli altri paesi alimentando le richieste di protezionismo contro l’invasione delle merci cinesi. Inoltre, l’industria cinese si è sviluppata tecnologicamente e commercialmente diventando un concorrente temibile delle aziende occidentali, esportando beni che prima importava.

Bolla immobiliare

La crescita spinta dagli investimenti, e dal credito facile, ha però creato in Cina una gigantesca bolla immobiliare che sgonfiandosi comprime i consumi privati, già colpiti dalle restrizioni legate al Covid: l’immobile, finanziato col mutuo, costituisce infatti una parte importante della ricchezza delle famiglie. Così, in un mondo alle prese con l’inflazione, i prezzi al consumo in Cina crescono appena dello 0,5 per cento.

La politica fiscale però non sostiene i consumi perché il governo ritiene che investimenti, industria e tecnologia siano prioritari. E la politica monetaria non può venire in soccorso dei consumatori perché un’espansione rischierebbe di svalutare lo yuan, con rischio fuoriuscita dei capitali, oltre a prolungare la crisi immobiliare.

In mancanza di consumi le stime di crescita cinese rimangono al di sotto degli obiettivi ufficiali, e i prezzi pericolosamente vicini alla deflazione. Ma il governo continua a puntare sugli investimenti nelle infrastrutture e nell’industria, specie nei settori considerati strategici, creando però in questo modo un eccesso di capacità produttiva che necessariamente deve trovare sbocco nelle esportazioni, ingigantendo i conflitti commerciali con l’Occidente.

I rapporti con Ue e Usa

Le amministrazioni Trump e Biden hanno adottato la stessa politica nei confronti della Cina, anche se con una narrativa diversa: blocco al trasferimento di tecnologia, barriere tariffarie contro le importazioni e incentivi fiscali per promuovere la re-industrializzazione del paese. Una politica che, a prescindere dai suoi meriti, non è mutuabile dall’Europa. L’economia europea è infatti molto più integrata con la Cina degli Stati Uniti, e costituisce un mercato troppo rilevante i grandi gruppi europei: secondo Factset, la Cina rappresenta per esempio il 26 per cento dei ricavi di Bmw, 20 di L’Oreal, 19 di Richemont (Cartier), 15 di Moncler, 10 di Ferrari, 18 di Carlsberg, 26 di ASML (prima società tecnologica europea), e il 20, 14 e 12, rispettivamente, di Atlas Copco, Abb e Siermens (i tre principali gruppi industriali).

Le aziende europee avrebbero troppo da perdere in una guerra commerciale. Né lo stato delle finanze pubbliche in Europa consente di sussidiare un’industria locale per la transizione ambientale in grado di competere con i cinesi.

Le tariffe sono inoltre inefficaci: le esportazioni della Cina verso gli Stati Uniti si sono più che dimezzate negli ultimi anni, ma la sua quota di mercato sulle esportazioni mondiali è rimasta costante, segno che molte componenti e prodotti cinesi sono assemblati in paesi come Vietnam o Messico prima di essere riesportati.Le filiere produttive sono difficili da smontare.

La principale ragione dell’inefficacia delle barriere tariffarie sono però gli investimenti diretti: la Cina può produrre in un paese terzo i beni che prima esportava. Una politica che il governo cinese persegue in modo massiccio: dieci anni fa, lo stock di investimenti diretti in Cina da parte degli stranieri eccedeva di quasi 1,600 miliardi quelli cinesi all’estero; alla fine del primo trimestre del 2024 si erano ridotti a 550. In 10 anni la Cina ha dunque investito cumulativamente quasi 2.400 miliardi in attività reali all’estero, il doppio degli investimenti stranieri in Cina che, per la prima volta, sono scesi nell’ultimo anno.

Deficit tricolore

In questo quadro quale è la politica del governo italiano nei confronti della Cina? Incoerente per quel poco che è dato di capire. Il viaggio della premier Giorgia Meloni a Pechino ha ricevuto grande rilievo mediatico, ma non si capisce quali fossero gli obiettivi, e gli elementi di un eventuale negoziato.

Sicuramente l’Italia ha un serio problema di disavanzo commerciale con la Cina cresciuto in dieci anni da 13 a 28 miliardi, il maggiore con un altro paese: la Germania segue con 15 miliardi. Ma la politica tariffaria è materia della Commissione, dove la nostra influenza e credibilità sono ai minimi storici; oltre ad essere controproducente perché avremmo tutto da perdere da una guerra commerciale.

Il governo dovrebbe invece farsi parte attiva con gli altri paesi europei e la Commissione per fare pressioni sulla Cina affinché promuova politiche fiscali a favore dei consumi delle famiglie, visto le caratteristiche delle esportazioni delle aziende europee; meglio spingere sull’export invece di bloccare l’import cinese con le tariffe. Ma c’è un altro importante aspetto di un possibile negoziato che il governo colpevolmente trascura. La Cina ha 1.100 miliardi di investimenti di portafoglio all’estero: 600 sono di fatto sempre cinesi perché investiti a Hong Kong e in paradisi fiscali; dei rimanenti 500 la metà sono titoli americani mentre il resto è distribuito prevalentemente tra UK, Australia e Lussemburgo; ai titoli euro vanno le briciole, a quelli italiani la miseria di 1,8 miliardi.

Visto il nostro enorme debito pubblico sarebbe stato auspicabile negoziare che almeno una parte di quanto ricavato dalle nostre importazioni rientrasse sotto forma di investimenti cinesi in Btp.

Ma sono gli investimenti diretti cinesi l’aspetto più preoccupante della politica del governo di Roma. Siamo stati l’unico paese occidentale ad aver aderito alla Via della Seta, disdettato da Meloni una volta arrivata a Palazzo Chigi.

Poi, tre settimane fa, la premier è corsa a Pechino apparentemente per rinnovare di fatto quell’accordo, con un’apertura agli investimenti diretti in Italia (vedi il progetto per la fabbrica di auto elettriche). Il tutto senza minimamente coordinarsi con il resto d’Europa.

Fattore Orbán?

Non vorrei che si stesse perseguendo la politica di Orbán che in rotta con l’Europa per i mancati finanziamenti comunitari per via della violazione dei diritti fondanti l’Unione, per le posizioni filo russe, e con le finanze pubbliche insostenibili, si è rivolto per aiuto alla Cina che ha così finanziato l’alta velocità tra Budapest e Belgrado, un oleodotto tra i due paesi, gli insediamenti industriali di BYD nelle auto elettriche e di Huawei (messa al bando in molti paesi) nelle comunicazioni, oltre ad altri progetti nei trasporti, nel nucleare, e in infrastrutture.

A luglio è poi emerso un finanziamento diretto della Cina al Governo ungherese da 1 miliardo per colmare le sue esigenze di bilancio. Ma la munificenza cinese non è gratis: l’Ungheria paga un alto prezzo politico diventando un grimaldello per scardinare l’unità dell’Europa e i suoi principi fondatori, e collocandosi sempre più in un blocco anti-occidentale, dove prevalgono regimi e democrazie illiberali. E’ questa la politica nei confronti della Cina che il Governo Meloni vorrebbe perseguire?

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