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Opportunamente Romano Prodi ha segnalato, su Il Mattino di sabato, la centralità, e l’attualità, di un problema abitativo in Italia. Per la verità sono già molti anni che nel nostro Paese manca una organica politica per la casa. Semmai c’è da chiedersi perché a fronte di una persistente e drammatica condizione abitativa, il tema sia scomparso da decenni dall’agenda politica nazionale e dall’azione di governo, di tutti i governi che si sono succeduti almeno nell’ultimo quarto di secolo.

Le ragioni sono molteplici e complesse. Volendo provare a sintetizzare in poche righe, è possibile che abbia prevalso il pregiudizio per il quale il problema dell’accesso alla casa si era come “naturalmente” risolto all’intersezione di due traiettorie. La prima, costituita dal superamento statistico del numero di vani esistenti (l’unità di misura all’epoca utilizzata), frutto di stagioni remote, come quella eroica del Piano Ina-casa, o più recenti, che avevano permesso di realizzare quello che ancora oggi è il patrimonio di case popolari, come allora si definivano. In secondo luogo, l’affermarsi della crisi demografica con la riduzione del numero di abitanti, che sembrava giustificare ancora di più la scelta di non costruire nuovi alloggi (l’indicatore più corretto per la misurazione del fenomeno) per una domanda reale che ci si ostinava a non far emergere.

Evidentemente una visione così miope faceva strame di molte evidenze: il numero consistente di seconde e, a volte anche, di terze case, di una quantità sempre crescente di alloggi impropri, malsani o abbandonati, come nel caso di interi piccoli borghi in via di desertificazione e spopolamento. Ma, soprattutto, di una componente qualitativa, con un forte disallineamento tra l’offerta di immobili liberi sul mercato di grandi dimensioni e una domanda sempre più articolata di alloggi più piccoli, per gruppi sociali emergenti come famiglie mononucleari, anziani, studenti, immigrati, dentro una cultura dell’abitare significativamente modificatasi nel tempo in termini di cohousing, residenze sociali o temporanee.

Il ritardo accumulato dall’Italia in questi anni costituisce uno dei limiti, la principale strozzatura l’ha definita nel suo intervento Romano Prodi, ad un riequilibrio territoriale, ad una prospettiva di sviluppo produttivo ed economico, ad una condizione di giustizia ed equità sociale. E se è vero che nel nostro Paese si raggiunge una delle percentuali maggiori, quasi il 80%, di proprietari di casa, d’altra parte abbiamo anche la percentuale minore di alloggi di edilizia residenziale pubblica, circa il 4% a fronte del 16 della Francia o dell’Inghilterra. Un’ulteriore eredità lasciata da anni di mancato governo di questi processi è costituita dall’illegalità diffusa che ha segnato l’occupazione abusiva di alloggi o la morosità endemica che mina alla base ogni sforzo di equilibrio economico nella gestione del patrimonio pubblico.

Cosa fare allora? Una opportunità che purtroppo non si è colta è stata quella del Pnrr, che anche in virtù dell’afflusso così ingente di risorse avrebbe potuto mettere al centro dei programmi di rilancio del Paese un nuovo, grande Piano per l’abitare sostenibile. Purtroppo si è scelto di parcellizzare i finanziamenti, fondamentalmente tra i ministeri, e gli effetti prevedibili saranno inferiori alle aspettative. Anche nel caso del superbonus si sarebbe dovuto privilegiare il finanziamento all’edilizia pubblica e, paradossalmente, si è fatto il contrario, privilegiando quella privata.

Ma anche a prescindere da queste occasioni perse, va considerato che ogni investimento per la riqualificazione del patrimonio esistente e per la realizzazione di nuove residenze pubbliche e sociali genera una molteplicità di effetti positivi diretti e indiretti, in termini di rilancio dell’economia nel comparto delle costruzioni e dunque sotto il profilo occupazionale e con un forte indotto, con ricadute dal punto di vista dell’efficientamento energetico e della messa in sicurezza del patrimonio abitativo, della riqualificazione ambientale e territoriale, dell’innalzamento della qualità della vita di interi quartieri, di incremento della sicurezza dei cittadini. In altri termini di concreta attuazione di politiche orientate alla transizione energetica, digitale e dell’inclusione sociale. Investimenti dunque assimilabili a quello che è stato definito “debito buono”.

In questa direzione si sta muovendo da diversi anni la Regione Campania, coordinando le politiche per la casa con riforme di sistema, riorganizzazione delle strutture, ascolto e dialogo con le parti sociali e con una pianificazione di interventi di medio periodo del valore di un miliardo di cui la metà già in corso di attuazione.

Con un metodo simile è auspicabile che possa rilanciarsi in Italia un programma nazionale che veda un’ulteriore dotazione di risorse ministeriali ed una reale collaborazione tra organi centrali e Regioni per la definizione delle strategie e della allocazione degli interventi sul territorio ed un ruolo attivo dei Comuni e delle Agenzie, ma anche di soggetti privati, nella loro attuazione e nel necessario, e non sempre semplice, dialogo con i cittadini e le popolazioni coinvolte. In un modello di governance cooperativo e non conflittuale ovvero in bilico tra rivendicazioni autonomistiche e pulsioni accentratrici.



 

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