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Smentita in modo netto l’ipotesi di una tassa sugli extra-profitti, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, accarezza ancora l’idea di avere qualche risorsa finanziaria in più dal settore bancario così da far quadrare la manovra d’autunno.

L’obiettivo di Giorgetti non sarebbe, però, quello di varare un provvedimento normativo di natura dirigistica, come avvenne il 7 agosto del 2023 quando il Consiglio dei ministri emanò un decreto legge in cui fu inserita la tanto discussa tassa sugli extra-profitti. Il ministro punta al momento a tenere una linea morbida per trovare «una soluzione condivisa» con gli istituti di credito entro la fine di settembre.

Qualche giorno fa con toni un po’ sibillini il ministro ha detto che le banche, che già pagano una maggiorazione sulle imposte Ires e Irap, «saranno chiamate, come tutti i cittadini, a contribuire alla finanza pubblica». In assenza di un improvviso aumento delle perdite sui crediti, è chiaro che il contributo più sostanzioso da parte delle banche arriverà dalla tassazione dei loro utili che stanno andando a gonfie vele.

I principali player finanziari (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mediobanca, Mps, Banco Bpm, Bper, Credem, Popolare di Sondrio e Poste) hanno totalizzato nei primi sei mesi di quest’anno profitti per quasi 15,5 miliardi. In particolare, da inizio anno al 30 giugno Unicredit ha generato utili per circa 5,2 miliardi di euro, Intesa Sanpaolo 4,77 miliardi e Mediobanca 1,28 miliardi.

Mantenendo questo trend, secondo le stime dell’Ufficio analisi e ricerche del sindacato Fabi, l’intero settore bancario potrebbe chiudere il 2024 con utili lordi a 45-50 miliardi di euro (erano 40,6 miliardi nel 2023) e nelle casse dello Stato potrebbero entrare anche più di 11 miliardi.

Ma al di là della tassazione degli utili, Giorgetti punta a percorrere anche altre vie per far quadrare i conti. Secondo fonti finanziarie, i tecnici del Tesoro e dell’Abi sarebbero già al lavoro e il tavolo di dialogo tra governo e banche potrebbe arrivare a una «soluzione condivisa» tra la metà di settembre e la fine del mese.

Al momento, una delle ipotesi allo studio sarebbe quella di proporre alle banche di aumentare in parte e in modo graduale la remunerazione delle giacenze su conti correnti, di cui beneficerebbe anche l’Erario, oltre ai cittadini, attraverso l’imposta del 26% degli interessi attivi. Non si tratterebbe però di un provvedimento ad hoc, la cui architettura legislativa sarebbe troppo complessa, di lunga attuazione e soprattutto costellata di rischi di profili di incostituzionalità.

In prima battuta il Tesoro potrebbe far leva sulla moral suasion per persuadere gli istituti di credito a innalzare gradualmente i tassi sui conti correnti. Basterebbe già uno 0,6 per cento in più di interessi sui conti correnti e l’Erario incasserebbe 2 miliardi. «I contatti tra il Tesoro e le banche sono continui e da parte nostra siamo aperti al dialogo», fa sapere un banchiere che preferisce mantenere l’anonimato.

Ma prima di ragionare con maggiore precisione sulle cifre si aspetta di vedere i numeri delle entrate dell’Erario di luglio. Nei primi sei mesi le entrate tributarie sono cresciute: 257,7 miliardi, con un aumento di 10,1 miliardi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+4,1%).

Non si esclude poi che, oltre alle banche, anche altri saranno chiamati dal governo a dare un “aiutino” finanziario. La platea potrebbe allargarsi ad altre aziende che godono di buona salute: le Poste, le assicurazioni Generali e Unipol che insieme hanno generato 3,5 miliardi di profitti nel semestre (-6,8% sul 2023). E nel novero dei “contribuenti speciali” potrebbero finire anche le case farmaceutiche e altri settori vitali dell’economia.

Sempre in tema di remunerazione di conti correnti un ragionamento a parte potrebbe meritare Poste. Tra conti correnti e libretti postali emessi dalla Cassa depositi e prestiti, ci sono 160 miliardi di euro delle famiglie italiane che non vengono remunerati. Poste ha azzerato i tassi sui conti mentre sui libretti Cdp viene applicato appena lo 0,001% lordo.

 

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