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Se sul piano militare la situazione è incerta e molto dipenderà dalla fornitura delle armi e dalla tempestività degli arrivi da parte dell’Occidente, più decifrabile, invece, è la situazione economica in cui Vladimir Putin ha cacciato il suo Paese. Grande è la preoccupazione sotto il cielo da parte dei responsabili economici, impossibilitati a nascondere gli elementi di un possibile dissesto, di cui esistono indizi inequivocabili.

“Il 26 luglio 2024 – ha comunicato Elvira Nabiullina Presidente della Banca centrale russa (nella foto) – il board della banca ha deciso di aumentare il tasso di riferimento (key rate) di 200 punti base, al 18 per cento l’anno. L’inflazione si è spinta oltre le previsioni di aprile della Banca centrale. La crescita della domanda interna è ancora sovrastante la capacità di espandere l‘offerta di beni e servizi”. Per dare concretezza a quella cifra è bene ricordare che, in Italia, quel tetto (18 per cento del prime rate) fu toccato negli anni ‘90 nel mezzo della bufera che aveva portato a svalutare la lira del 30 per cento ed al fallimento dello SME: il Sistema monetario europeo. Un terremoto destinato, oggi come allora, a togliere il sonno ai responsabili dell’economia di qualsiasi Paese.

“Nel secondo trimestre dell’anno – continua impietosa l’analisi della banca centrale – l’aumento medio dei prezzi destagionalizzati è stato pari all’8,6 per cento, in termini annualizzati, contro il 5,8 per cento del trimestre precedente.” A sua volta l’inflazione core – quella di fondo – è passata “dall’8,6 di giugno al 9 per cento del 22 luglio”. Che all’origine di tutto ciò sia la spietata guerra imperialista di Vladimir Putin (finora un totale di mezzo milione tra morti e feriti) è talmente evidente da non richiedere ulteriori spiegazioni.

Uno dei drives della caduta dell’economia russa, sebbene il suo tasso di crescita sia pari alla media delle economie emergenti e di gran lunga superiore a quello delle economie avanzate, è dato dal valore del rublo. A partire dal 2019 la sua svalutazione rispetto al dollaro americano è stata continua, sebbene ad un tasso variabile nel tempo. Su base annua i primi sei mesi dell’anno in corso mostrano una svalutazione cumulativa – secondo gli stessi dati dalla Banca centrale russa – del 40 per cento circa, rispetto a cinque anni prima.

Una moneta così debole per un Paese che ha bisogno di importare quasi tutto per sopravvivere non può che alimentare un’inflazione persistente. Inflazione importata: come dicono gli economisti, rispetto alla quale non c’è soluzione. Se non abbassare i salari ed esportare di più. Raggiungere, cioè attivi consistenti delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, grazie ai quali accumulare dollari e quindi far crescere le proprie riserve valutarie da porre a presidio del valore della moneta.

Mission impossible nelle attuali condizioni politiche. Le esportazioni tipiche della Russia – materie prime e prodotti energetici – in passato rivolte verso i ricchi mercati occidentali sono crollate. Soprattutto a seguito delle decisioni politiche delle principali Capitali europee. Le sanzioni, poi, hanno fatto il resto, e se i risultati sono stati meno catastrofici del previsto, ciò si deve all’andamento dei prezzi relativi delle esportazioni russe, in crescita nei principali mercati, per effetto del buon andamento (più 3,2 per cento in media il Pil previsto) delle economie emergenti. Che solo in parte hanno compensato la caduta delle importazioni da parte dell’Occidente.

Circostanza che non ha impedito di produrre danni di notevoli proporzione all’economia di Santa madre Russia. Secondo quanto riporta il n.2 di Russian balance’s payment, “il prezzo del petrolio (Brent) aveva raggiunto gli 85 dollari al barile, come una crescita dell’8 per cento, lo scorso anno. Mentre quello russo (Urali’s oil) era stato venduto a sconto: 69 dollari al barile.” Nello stesso tempo le perdite di mercato in Europa, per il complesso delle esportazioni russe, erano stati pari a 9 punti, malamente compensate dalla crescita su altri mercati per un valore ed un volume nettamente inferiore.

Poteva anche andare peggio, ma almeno nei primi sei mesi dell’anno, seppure con le difficoltà indicate in precedenza, il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti è risultato leggermente in attivo. Nulla a che vedere, ovviamente, con i numeri degli anni passati. Quando, come nel 2004 o nel 2022, grazie al forte aumento dei prezzi soprattutto del gas, quegli attivi avevano raggiunto un livello pari ad oltre il 10 per cento del Pil. Cinque volte il valore del 2023. E fornito allo Stato centrale le risorse necessarie per far fronte alle varie esigenze politiche del Paese.

Altro aspetto preoccupante. Quei risultati pure positivi sono stati ottenuti soprattutto comprimendo le importazioni. Con una politica di contingentamento, messa in atto dalle autorità centrali, per favorire il rifornimento delle industrie che producono per la guerra. Da questo punto di vista, l’economia russa appare sempre più dominata dal complesso industriale – militare, al quale sono garantite in via prioritaria tutte le risorse disponibili in termini di finanziamento, occupazione e disponibilità di quei beni, di cui all’interno non c’è disponibilità.

Una contraddizione che la stessa Elvira Nabiullina, seppure nel linguaggio felpato del grande commis d’etat, è stata costretta ad evidenziare. “Non c’è carenza di denaro – ha detto parlando alla riunione del Consiglio per lo sviluppo del mercato finanziario della Federazione Russa, lo scorso luglio – anche con tassi di interesse così alti; i prestiti sono in aumento e gli utili aziendali sono ai massimi pluriennali”. Non ci si sono quindi limiti finanziari ai possibili investimenti. “Tuttavia, l’economia non è sempre pronta a soddisfare la crescente domanda a causa della mancanza di risorse fisiche. Non ci sono quasi forza lavoro e capacità produttive inutilizzate.” Perché tutte assorbite dalle fabbriche di morte.

In un’economia sempre più militarizzata, “i progetti di sovranità tecnologica” – eufemismo per non parlare di queste ultime – sono le “priorità chiave”. Ripete Nabiullina. Attenzione tuttavia: “Cosa succede se la domanda viene stimolata mentre le risorse sono insufficienti? Tutta questa domanda si traduce in un’accelerazione dell’inflazione, innescando un rallentamento dell’economia. Ancora di più, c’è il rischio che l’economia precipiti in una profonda recessione. Quando l’inflazione è alta e in accelerazione, l’economia è molto vulnerabile e non riesce a rispondere prontamente al timone, proprio come una nave. Questo non dovrebbe essere tollerato nelle nostre condizioni.”

I dati disponibili confermano queste preoccupazioni. In Russia i salari sono cresciuti sia per effetto dei sussidi concessi agli uomini in arma, sia per le maggiori rigidità del mercato del lavoro, causato dallo sviluppo del complesso militare – industriale. La disoccupazione è ai minimi storici, pari ad appena il 2,8 per cento. Ma non è tutto oro quello che luccica. Come ha ricordato la stessa Nabiullina “i redditi più bassi stanno rallentando rispetto all’inflazione. Per loro, la nostra politica di riduzione dell’inflazione è molto più di un’idea astratta, ma una questione se possono sfamare le loro famiglie e uscire dalla povertà.” Un monito che nell’ex Paese del socialismo reale è cosa che desta una certa impressione.

Fino a che punto la Russia potrà vivere con queste contraddizioni? Da un lato l’armatura autocratica protegge il potere e lo preserva; dall’altro, tuttavia, un modello sempre più stile Nord Corea ne indebolisce le strutture portanti. Se un paragone è possibile, gli americani poterono condurre la loro guerra in Vietnam per quasi dieci anni. Ma furono in grado di sostenere quello sforzo grazie anche ad un finanziamento internazionale implicito, reso possibile dal predominio del dollaro sui mercati internazionale. Non è questa la situazione del rublo, sempre più ridotto a semplice moneta locale. Difficile quindi ogni previsione. Ma l’inflazione, alla lunga, è una brutta bestia: può far più male di un attacco missilistico.

 

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