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È la prima, calda estate del nuovo Patto di stabilità e crescita, riformato dopo tre anni e mezzo di pausa. E tanto basta a spiegare perché il dialogo tecnico tra le capitali e gli uffici di Bruxelles – pensato sul modello del Recovery Plan e improntato alla «prudenza» – non si interrompa neppure durante la pausa che le istituzioni dell’Ue si sono prese prima del tour de force autunnale, che si chiuderà con l’insediamento della nuova Commissione europea.

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LE SCADENZE
Alla ripresa dei lavori, dopotutto, ad attendere i conti pubblici dell’Italia e degli altri 26 Paesi Ue ci saranno due momenti chiave: non solo la consueta presentazione entro il 15 ottobre delle manovre finanziarie, ma pure la stesura e l’invio ai tecnici dell’esecutivo Ue, stavolta entro il 20 settembre, dei primissimi piani pluriennali di spesa (a 4 o 7 anni) che rappresentano il pilastro fondamentale dell’assetto del nuovo Patto. Solo a novembre, una volta messo a punto l’allineamento normativo dei vari tasselli della disciplina riformata sui conti pubblici, la Commissione renderà nota l’entità dell’aggiustamento di bilancio richiesto a quella manciata di Paesi, come il nostro o la Francia, per cui a giugno ha aperto una procedura per deficit eccessivo.

Dalle dense linee guida che Bruxelles ha trasmesso ai governi nazionali per assistere gli Stati nella stesura dei piani di spesa a medio termine emergono anche le prime chiare indicazioni, come la necessità di usare «prudenza» nelle assunzioni macroeconomiche, «incluse quelle sulla crescita del Pil, l’inflazione e i tassi di interesse»: l’impatto potenziale sulla crescita di riforme non ancora attuate (pur se concordate nel quadro del Patto), ad esempio, non andrà tenuto in considerazione.

LE SCELTE SUL BILANCIO
Nella traiettoria tecnica di riferimento per il rientro del debito, che la Commissione ha inviato ai governi a metà giugno, sono stati definiti due target, uno a 4 e uno a 7 anni, in funzione della durata (e dell’orizzonte del risanamento) che sarà ufficializzata da ciascuno Stato prima di metà settembre e che dovrà poi essere validato entro l’anno da Commissione e Consiglio.

L’Italia in particolare non ha mai fatto mistero di puntare sull’orizzonte temporale più esteso, che offre maggiori margini di flessibilità e aggiustamenti di bilancio più soft (in ogni caso non inferiori allo 0,5% richiesto a chi, come il nostro Paese, si trova soggetto a una procedura per deficit eccessivo), ma implica pure un set di riforme e investimenti, al pari di ciò che accade nel quadro del Pnrr, e la dimostrazione che questi ultimi siano indirizzati verso priorità di azione comune dell’Ue, dalla transizione verde a quella digitale. I piani dovranno contenere impegni precisi sulla crescita della spesa pubblica primaria netta, cioè calcolata senza tener conto di spesa per interessi, spesa ciclica per la disoccupazione, misure discrezionali sulle entrate e co-finanziamento dei programmi finanziari dell’Unione. L’impegno – mettono nero su bianco dall’esecutivo europeo – è «mantenere la spesa netta in termini nominali al di sotto dei tassi di crescita annuali» per garantire il rispetto dei «requisiti di sostenibilità del debito e il rispetto delle salvaguardie» previste dal Patto.

Quanto al come farlo, Bruxelles si limita a descrivere il bivio che si apre per le capitali Ue: «Per mantenere questo impegno, un governo può scegliere tra il contenimento della spesa e/o l’aumento discrezionale delle entrate». I piani pluriennali dovranno anche offrire, proseguono le linee guida Ue, «un’analisi che dimostri che il debito previsto è plausibilmente su un percorso discendente o rimane a un livello prudente».

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