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Il 9 maggio 2024, nella solennità dell’Ascensione, papa Francesco ha pubblicato la Bolla di indizione del Giubileo ordinario dell’anno 2025, Spes non confundit. L’anno giubilare avrà come motto “Pellegrini di speranza”.

Il volume preparato dal professore di Nuovo Testamento e pro-rettore alla Pontificia Università Lateranense, professore invitato di Retorica e stilistica paolina alla Pontificia Università Gregoriana e attuale Presidente dell’Associazione Biblica Italiana, si offre in modo naturale come ottimo compagno di viaggio per i pellegrini.

L’autore, specialista di studi paolini, si concentra sul tema della speranza così come si sviluppa nell’insieme delle tredici lettere che compongono l’epistolario paolino. Sono in tal modo studiate le sette lettere autoriali (cioè autentiche, attribuite senza alcun dubbio all’Apostolo), le “discusse” Efesini, Colossesi e 2Tessalonicesi (le cosiddette Antilegomena) e anche le Lettere Pastorali (1-2Timoteo, Tito), notoriamente posteriori al Paolo storico.

Si è abituati a pensare che il centro della teologia paolina sia il tema della giustificazione per fede. Pitta vi pone invece il tema della speranza, presente in tutte le lettere e lo esamina nel suo dipanarsi cronologico.

Lo studioso invita a pensare non tanto a una teologia della speranza o a una speranza escatologica, ma alla “speranza salvifica” (1Ts 5,8),

Il mondo greco-romano evangelizzato da Paolo si dibatteva tra paura e speranza riposta nella salvezza apportata dagli imperatori. L’Antico Testamento esprime chiaramente la speranza di salvezza riposta da Israele in YHWH, il Dio liberatore. Paolo tiene presente i due retroterra culturali e religiosi delle persone a cui sui rivolge e li tratta in sinergia fra loro.

Anche se Gesù non ha mai utilizzato il termine “speranza”, ha parlato spesso della vigilanza in vista dell’incontro con il Signore. Egli viene come un ladro di notte. In tante parabole Gesù tratta della vigilanza da coltivare quotidianamente. Occorre una vigilanza fedele, che attende il padrone che ritorna improvvisamente da un paese lontano.

Tre frammenti essenziali di fede del NT incidono sui contenuti sperati: la parabola sul ladro di notte, l’espressione Marana thá e “Il Signore vicino”. La vigilanza è il risvolto positivo della speranza.

Sulla speranza radicata nella fedeltà di Dio e nella fiducia in lui si innesta il contributo di Paolo, che è il primo a usare il termine “speranza”. I frammenti precedenti alla lettera di Paolo hanno come esito più consistente la venuta di Cristo relazionata alla speranza.

Metafore

Pitta esamina il fatto che Paolo parla della speranza con metafore. C’è una speranza epistolare – Paolo che spera di trascorre un po’ di tempo con i corinzi – e una speranza salvifica. Paolo cita due volte l’AT sul tema della speranza. In 1Cor 9,10 è riportato a senso Is 28,24. In Rm 15,12 cita la versione greca di Is 11,10, unica citazione dell’AT sulla speranza salvifica.

Pitta esamina il linguaggio della speranza e le sue metafore.

La metafora principale è quella della corona floreale, mentre il secondo contesto si sposta sull’agonismo sportivo della corsa. Ci sono le metafore del giorno e della notte, quella della primizia e quella del seme. Oltre a quella agricola, esiste la metafora del vestito, con il radicamento della speranza nel rapporto con Cristo di cui si è stati rivestiti. Tipica dell’apocalittica è la metafora del parto, per rendere l’idea di una speranza negativa o positiva.

Al contesto economico-amministrativo appartengono, invece, i termini “caparra” ed “elargizione”, due metafore collegate allo Spirito. Sono presenti anche le metafore dello specchio, quella delle vele spiegate, dell’“essere versato in libagione”.

La metafora sponsale di 2Cor 11,2 è carica di speranza, mentre quella della cittadinanza civile è ripensata in funzione della cittadinanza celeste. La metafora della manifestazione e dell’apparizione cultuale, applicata all’incontro col Signore, è tipica della seconda tradizione paolina ed è ricavata dal culto imperiale.

L’epifania del Signore sostituisce, nelle Lettere Pastorali, la parousía di Cristo delle lettere autoriali.

Nel corso della sua opera, Pitta esamina le varie metafore elencate e il loro significato. Rispetto al mondo giudaico, originale di Paolo è l’ancoraggio della speranza alla salvezza compiuta nella morte e risurrezione di Cristo. Per l’ambiente pagano, la speranza è liberata dal versante tenebroso della paura, per essere fondata sulla certezza di quanto è avvenuto in Cristo. Le metafore della speranza sono vive e non semplici paragoni. Rendono visibile quel che è invisibile agli occhi.

Il volume di Pitta è ricchissimo di dati, impossibili da riassumersi in poche righe. Di fatto, il volume può essere letto anche come una vera e propria introduzione al contenuto principale di ciascuna lettera paolina. Ci limiteremo ad alcune indicazioni essenziali.

1 Tessalonicesi, 1Corinzi, 2Corinzi

Nella Prima ai Tessalonicesi la speranza domina la scena. Paolo menziona la triade: fede operosa, amore faticoso e speranza perseverante (cf. 1,3). Alla fine della lettera, egli ricorda che i credenti hanno indossato la corazza della fede e dell’amore, con l’elmo della speranza della salvezza (cf. 5,8). Nel greco si menziona l’elemento più importante ponendolo alla fine della frase. La speranza dei cristiani è salvifica, in un mondo visto senza speranza (in Cristo, cf. 4,13).

1Ts contiene quattro metafore della speranza: la corona del vanto (2,18), l’apantesi o incontro finale con il Signore (4,17), il contrasto fra la notte e il giorno (5,5-7) e l’armatura nella battaglia. Le prime due metafore provengono dall’ambiente pagano di Tessalonica, la terza dal mondo giudaico, la quarta può riscontrarsi in entrambi i contesti.

La speranza è salvifica, è l’incontro con Cristo, che vedrà il suo momento culminante nella parusia. Occorre vigilare nella speranza, proteggendosi con essa come un elmo nella battaglia quotidiana.

Nella Prima ai Corinzi la speranza diventa un elemento secondario. La fede nella risurrezione deve farsi largo fra i culti misterici.

Paolo parla della speranza salvifica nella sezione dedicata alla risurrezione (1Cor 15). La speranza è connessa con la partecipazione dei credenti alla risurrezione di Cristo. Cristo è la primizia di quanti si sono addormentati. Paolo tenta di spiegare la risurrezione parlando del seme corruttibile e di quello incorruttibile.

Viviamo nell’attesa della rivelazione, ma la speranza è connessa anche al giudizio. Il credente gareggia nel mondo in vista di una corona incorruttibile e si nutre del corpo di Cristo finché egli venga.

Nell’elogio dell’amore (1Cor 13), la triade trova il suo culmine nell’amore. Dopo questa vita non vedremo più come in uno specchio ma nella piena conoscenza. La speranza conserva la connotazione evangelica propria di chi, come Paolo, è disposto a farsi tutto a tutti, pur di guadagnare qualcuno a Cristo.

La Seconda ai Corinzi rispecchia un sottofondo conflittuale tra Paolo e i destinatari. È una lettera appassionata in cui Paolo confessa che la sua speranza nei corinzi è salda perché partecipano alla sua consolazione e alle sue sofferenze. Gli accenni alla speranza salvifica sono invece sporadici; in 1,10 c’è il verbo e in 3,12 il sostantivo.

Paolo confessa la sua speranza nella redenzione, muovendosi tra la metafora dello specchio e l’immagine della metamorfosi. Lo spirito di fede o di fiducia donato nel ministero è il fondamento della speranza a dimostrazione che, in alcuni contesti, essa si identifica con la fede e la fiducia. C’è il contrasto tra il momentaneo peso leggero della tribolazione e la gravità della gloria. La speranza si connota per il paradosso della sua levità che, nel mondo greco-romano, è richiamata dal mito di Perseo e Medusa.

In 2Cor 4,13-18 la speranza è fondata sulla Scrittura e, in particolare, sul Sal 115,1LXX. Si confessa apertamente la speranza in una risurrezione condivisa, una speranza collegata a un rinnovamento interiore. La vita del credente si svolge tra una dimora temporanea e una definitiva, nella recezione della caparra dello Spirito. Si susseguono le metafore della dimora terrena e di quella celeste, dell’essere rivestiti e non nudi. Il credente è in esilio verso la dimora definitiva.

Nella lettera polemica confluita in 2Cor 10,1–13,13 non si accenna alla speranza ma, all’inizio della seconda apologia, si accenna alla relazione sponsale fra Cristo e i destinatari. Cruciale, in questo momento, è ristabilire i rapporti spesso conflittuali con i corinzi. Essi sono la sposa in attesa dello sposo.

La metafora principale della speranza in 2Cor è, quindi, quella della caparra dello Spirito, da cui dipendono le altre. La speranza è visibile quando è sostenuta dalla parresìa o fiducia che la presenza o la gloria di Dio è permanente e dalla libertà donata dallo Spirito. La speranza è connotata dalla levità e, tra speranza e fede, non c’è separazione netta, in quanto entrambe sono accomunate dalla convinzione che si parteciperà alla morte e alla risurrezione di Cristo.

«La speranza inizia quando si è stati liberati da un pericolo mortale e la fiducia nel redentore non viene meno – scrive Pitta –. Per questo, “avere speranza” è “ricevere la speranza” da chi ci sostiene, nonostante e nella tribolazione» (p. 117).

Galati

Tra la figliolanza divina e la libertà, la speranza assume nuovi orizzonti nella Lettera ai Galati. Come termine, la speranza compare solo in 5,5: «Mediante lo Spirito, noi attendiamo dalla fede la speranza nella giustizia».

A fronte delle poche volte in cui si accenna alla speranza e alle sue metafore, tuttavia, per la prima volta, si riscontra nelle lettere paoline il paradigma della speranza: la promessa, la realizzazione e il compimento. Se le promesse fatte da Dio ad Abramo si sono realizzate in Cristo, (3,16) perché i credenti dovrebbero attendere la speranza della giustizia derivante dalla fede? Qual è il ruolo dello Spirito rispetto alle promesse e al loro compimento?

In Galati si sottolinea il fatto che siamo stati strappati dal secolo presente e ci viene data la promessa dello Spirito. La giustificazione viene sperata tramite lo Spirito e c’è tempo tra la seminagione e la raccolta.

La Lettera ai Galati gravita sulla morte e risurrezione di Cristo o sul cambiamento del tempo e dello spazio. Poiché Cristo ci ha strappati dal secolo malvagio (1,4), il centro del tempo si trova nella “pienezza del tempo”, quando Dio ha mandato il Figlio e lo Spirito del Figlio. Lo Spirito è la promessa, la caparra, la primizia e l’elargizione in vista dell’eredità.

«Da tale anticipazione scaturisce il motivo della speranza – riassume Pitta –: con l’azione dello Spirito, i credenti attendono la giustificazione sperata. Giustificati da quando hanno iniziato a credere in Cristo (2,16), quanti sono di Cristo attendono il compimento della giustificazione. Essa è sempre sperata e non è mai realizzata in modo definitivo, ma esige d’essere vissuta come promessa in vista del compimento. La metafora della seminagione e del frutto per la corruzione o per la vita eterna (6,7-8) pone i credenti di fronte all’aut-aut tra la vita secondo la carne o secondo lo Spirito» (p. 130).

Romani

Nella Lettera ai Romani la speranza svolge un ruolo di primo piano, al punto che alcuni l’hanno definita «la lettera della speranza». Si menziona esplicitamente «il Dio della speranza» (15,13).

La speranza è centrale nella sezione dedicata alla giustificazione (5,1–8,39), mentre prima è menzionata di passaggio solo per Abramo (4,18). In 9,1–11,36 la sua rilevanza è diversa: subentra il paradigma con la promessa, la realizzazione parziale e il compimento. Il corpo della lettera (1,18–15,13) termina comunque con il passo di Is 11,10 secondo cui «tutte le nazioni spereranno nel rampollo di Iesse» (15,12) e con l’augurio che il “Dio della speranza” ricolmi i destinatari di ogni gioia e pace nel credere per abbondare, mediante lo Spirito, nella speranza (15,13).

Alla speranza sono rapportate diverse metafore: “la primizia” (8,23), “l’intensa attesa” (8,19), il superamento della notte e l’approssimarsi del giorno (13,11-14), l’accenno alle armi della luce (13,12). In 8,19-23 si concentrano i verbi “attendere”, “gemere”, “con-gemere” che insistono sulla speranza.

Anche se è trattata in funzione della giustificazione (1,16-17), la speranza è costitutiva dell’evangelo.

È interessane scoprire che cosa evidenzi Rm circa la speranza e perché il corpo epistolare termini con il “Dio della speranza”.

In Romani si passa dalla dea al Dio della speranza. Tra il V e il III sec. a.C., a Roma erano stati costruiti due templi della Speranza. Tito Livio ricorda quello costruito nel 477 a.C. Secondo Pitta, la larga diffusione del culto per la dea della speranza deve aver ispirato l’originale chiusura del corpo epistolare di Romani.

In 4,18, a proposito di Abramo, si afferma: «credette per la speranza contro la speranza, così da divenire padre di molte nazioni…». La vicenda di Abramo illustra il paradosso della speranza. La fede di Abramo diventa condizione di una speranza paradossale. L’incrollabile speranza di Abramo cozza contro la condizione del suo corpo avvizzito. «Contro la speranza umana, con la speranza in Dio», commenta Giovanni Crisostomo. Contro la speranza per una discendenza impossibile a realizzarsi, Abramo continuò a credere nella promessa della discendenza.

Il vanto nella speranza e la salvezza nella speranza

La sezione della giustificazione dalla fede (5,1–8,39) è incorniciata dal vanto nella speranza della gloria (5,1-11) e dall’essere salvati nella speranza (8,18-27). Il bandolo della matassa è in 5,1-2: per la prima volta la speranza è attribuita ai credenti in Cristo.

Ci si domanda, però, cosa significhi vantarsi nella speranza, il motivo di questo e la relazione tra la speranza e la gloria.

La speranza «non fa vergognare» (più che non “delude”, afferma Pitta), perché l’amore di Dio è stato riversato nel cuore dei credenti mediante lo Spirito. In positivo, «la speranza permette di vantarsi», perché scaturisce dall’amore di Dio riversato per mezzo dello Spirito. Quanto è spiegato in 5,6-11 approfondisce l’enorme paradosso della morte di Cristo che ha reso possibile la speranza in vista della gloria.

I credenti possono vantarsi nella speranza perché, giustificati mediante la morte di Cristo, saranno salvati dall’ira. Pertanto, “vantarsi nella speranza” è vantarsi in Dio per mezzo di Gesù Cristo da cui si è ricevuta la riconciliazione (5,11).

Dopo il confronto tra Adamo e Cristo, Paolo affronta alcune questioni consequenziali (6,1–7,25). Con il battesimo siamo assimilati a Cristo e battezzati nella speranza.

Pitta ricorda opportunamente che homoíōma non significa “somiglianza” ma “assimilazione”. Siamo quindi battezzati nella speranza, salvati nella speranza, come si afferma al culmine del “canto dello Spirito” (8,1-30).

In 8,18-31 la speranza domina la scena. La liberazione compiuta dallo Spirito è sicura; rimane la lotta che non è risparmiata al credente. La condizione tragica dell’ego è superata, ma non del tutto, ricorda Pitta. Persino la creazione nutre la speranza di essere liberata dalla vacuità alla quale è stata sottomessa e di essere resa partecipe della libertà gloriosa dei figli di Dio. La speranza dei credenti è sempre attiva, mai compiuta, perché anche il corpo deve essere ancora redento nella sua completezza.

I cc. 9–11 non contengono il linguaggio e le metafore della speranza, ma contribuiscono in modo decisivo a esplicitare la speranza salvifica, illustrando la relazione tra le promesse di Dio, la loro realizzazione e il loro compimento.

La sezione etica di Rm 12,1–15,13 contiene, fra l’altro, le motivazioni per cui essere gioiosi nella speranza (cf. 12,12). Il motivo scaturisce dall’essere stati salvati in Cristo e dall’azione dello Spirito. È una gioia intesa come condizione e non come semplice sentimento. La prossimità della speranza con la tribolazione la rende infatti paradossale.

Al sentire di Pitta, Rm 13,11-14 è un paragrafo fra i più ispirati di Paolo sulla speranza. La metafora principale del passo si concentra sul momento o kairós decisivo. L’ora decisiva avviene quando, all’alba, ci si desta dal sonno. Dato il contesto metaforico, il sonno in questione è etico, di chi veglia all’alba del giorno nuovo. La metafora del conflitto tra la notte e il giorno per esprimere la speranza concerne qui i credenti, che si trovano tra la notte e il giorno. C’è il rischio di riaddormentarsi.

Viene utilizzata anche la metafora del “rivestirsi di Cristo”. Si invita a rivestirsi di Cristo fino all’incontro definitivo con lui. Rm 13,11-14 è stato decisivo per la conversione di Agostino.

Dallo Spirito scaturisce, quindi, l’abbondante speranza. Il Dio della speranza (15,13) è tale perché, tra Dio e la speranza contenuta nella sacra Scrittura, c’è una relazione necessaria. Paolo cita il profeta Isaia sul rampollo di Iesse (cf. 15,12-13). Salvati nella speranza, mediante l’azione dello Spirito i credenti possono abbondare nella speranza. La speranza è generata dallo Spirito dato in caparra e non è paragonabile alla virtù della pace e della speranza divinizzate a Roma. Lo Spirito rende possibile la prossimità reale con il Dio della pace e della speranza.

Mi pare utile per il lettore riportare la sintesi finale di Pitta su Romani e la speranza (pp. 165-166).

«La speranza nella Lettera ai Romani inizia con Abramo, che credette per la speranza, contro la speranza (4,18), e termina con “il Dio della speranza” (15,13). La fede in Cristo, che Dio ha risuscitato dai morti (10,9), è condizione imprescindibile per la speranza. Radicata nel passato della salvezza, la speranza è alimentata dall’azione dello Spirito (8,26; 15,13). Il battesimo è il sacramento della speranza, a condizione che sia ripensato non come semplice rito di passaggio, né soltanto come purificazione dal peccato, ma come assimilazione alla morte di Cristo, in vista della sua risurrezione (6,4-5).

Fra le metafore della speranza, spiccano quella dell’intensa attesa della creazione, del trasferimento della notte all’alba del giorno, dell’armatura nella battaglia e del rivestirsi di Cristo. Il paradigma della speranza attraversa Rm 9,1–11,36: dalla promessa contenuta nella Scrittura per la discendenza di Abramo, alla realizzazione del “resto” che garantisce la salvezza per tutto Israele. Poiché nel I secolo era diffuso il culto alla dea Speranza, favorito soprattutto da Cesare Augusto e da Tiberio Claudio, l’evangelo per la salvezza per chiunque crede (1,16-17) culmina con “il Dio della speranza» (15,13). Non una personificazione della speranza, bensì Dio che dona la speranza mediante il suo Spirito a quanti credono in Cristo: “La redenzione è l’invisibile, l’irraggiungibile, l’impossibile, che ci incontra come speranza” (cit. di Barth, L’Epistola ai Romani, 296)».

Filemone e Filippesi

Nella Lettera a Filemone e nella Lettera ai Filippesi emerge la speranza di Paolo dalle profonde oscurità del carcere.

In Filemone c’è la speranza di essere graziato, per raggiungere i destinatari. Nella grazia che si attende dai magistrati si intravede la grazia di Dio richiesta con la preghiera.

In Filippesi si accenna più volte alla sua possibile morte in prigionia. La morte è vista però come “chiamata superiore” e un “guadagno” paradossale. Emerge l’invito a imitare la speranza e la riflessione sul vivere, il morire e l’intensa attesa. Sono presenti le metafore delle vele spiegate per intraprendere il viaggio e quella della corsa per raggiungere la meta. Paolo vede la propria condizione come libagione della vita. Intatta rimane la speranza nella risurrezione e di raggiungere la cittadinanza celeste.

Il “testamento” di Paolo, prossimo alla morte, dichiara con fermezza che la speranza fra persone è imitabile, a condizione che sia fondata sulla conformazione reciproca, nonostante e nelle tribolazioni. La speranza non è imitabile quando è proiettata in modo sproporzionato sul futuro, né quando è rinchiusa nel proprio ego. È imitabile, invece, quando si condivide la gioia che l’ultima parola non è il nulla, ma la trasfigurazione del proprio umile corpo in quello glorioso di Cristo.

«La speranza – annota Pitta – è la corsa di chi, “conquistato da Cristo» (3,12), è proteso verso il premio e la cittadinanza superiore che relativizza qualsiasi altro diritto di cittadinanza terrena» (p. 188).

La prima trdizione paolina: 2Tessalonicesi, Colossesi ed Efesini

Le tradizioni paoline si sono sviluppate in due gruppi. 2Tessalonicesi, Colossesi ed Efesini vedono la luce fra il 60 e il 70 d.C. (distruzione del tempio). Esse conservano e attualizzano la figura e il messaggio di Paolo. Le Lettere Pastorali (1Timoteo, Tito e 2Timoteo) nascono, invece, nel decennio successivo.

Invece di parlare di pseudo-epigrafia e pseudo-epistolografia, Pitta suggerisce di parlare di proto-epigrafia. Autori delle lettere non sembrano essere un discepolo di Paolo, ma le comunità stesse di riferimento. Si deve pensare non a una scuola paolina ma a tradizioni trasmesse dall’una all’altra comunità. 2Ts è stata redatta in Macedonia, mentre Col ed Ef vedono la luce a Efeso, la capitale della provincia romana dell’Asia Minore.

Nelle lettere della prima tradizione scompare il motivo della speranza epistolare tra Paolo e i destinatari, mentre si afferma solo la speranza salvifica. In Ef emergono la metafora della caparra e quella dell’armatura con l’elmo della salvezza.

La scarsa attenzione alla speranza nella prima tradizione paolina è dovuta alla funzione di 2Tessalonicesi, scritta per correggere alcuni fraintendimenti sulla parusia di Cristo (2Ts 2,1-2). 2 Tessalonicesi chiarisce che la venuta di Cristo non è imminente e sarà preceduta da quella dell’empio. Fondata sull’amore di Dio, “la buona speranza” (2Ts 2,16) assicura i credenti sulla partecipazione della vita ultraterrena.

In Colossesi ed Efesini subentra, invece, il motivo della salvezza realizzata e della speranza già compiuta. In Col spicca l’evangelo della speranza, che viene riservata nei cieli. In Col conta non sola fide ma sola spe, afferma Pitta. La priorità della speranza è il principale contributo di Colossesi rispetto alle lettere autografe. Solo la speranza, riposta da Dio nei cieli, genera la fede e l’amore fra i credenti.

Si discute se il “vangelo della speranza” (1,23) di cui Paolo è divenuto ministro sia un genitivo oggettivo (speranza che ha come contenuto il vangelo), attributivo (la speranza evangelica) o soggettivo (speranza contenuta nel vangelo). Pitta opta per un genitivo soggettivo. L’evangelo annuncia la speranza. Poiché i destinatari hanno ascoltato la parola della verità dell’evangelo (cf. 1,5), sono esortati ora a restare irremovibili nella speranza contenuta nell’evangelo.

L’inizio del corpo epistolare di Colossesi (Col 1,24–4,6) esplicita i contenuti della speranza trasmessa mediante l’evangelo. Si tratta del «mistero nascosto dai secoli e dalle generazioni che Dio ha voluto far conoscere fra i gentili: Cristo in voi, la speranza della gloria» (1,26-27).

Per la prima volta la speranza della gloria o gloriosa viene identifica con “Cristo in voi”, Cristo nel suo corpo ecclesiale. La speranza non è identificata con il Risorto ma riguarda la presenza di Cristo “in voi”. La speranza poi, riservata da Dio nei cieli, raggiunge quanti si trovano sotto il cielo mediante la relazione tra Cristo e quanti formano il suo corpo.

La Lettera agli Efesini esprime la sua principale originalità nella tensione tra l’elezione divina e la speranza (Ef 1,18; 4,4). Da Colossesi viene mutuata la visione della salvezza realizzata con la morte e la risurrezione di Cristo, su cui fonda la speranza della chiamata.

I credenti sono benedetti, fatti eredi in Cristo, predestinati secondo il progetto divino, affinché, avendo sperato prima in Cristo, siano a lode della gloria di Dio. Il nuovo paradigma della speranza si compone della promessa dello Spirito, la realizzazione della caparra e il compimento dell’eredità. La metafora del sigillo proviene dalle lettere autoriali (cf. 2Cor 1,20-22).

Per comprendere la speranza alla chiamata, sono necessari uno Spirito di sapienza (1,17) e gli occhi del cuore (1,18). Quest’insolita espressione può essere chiarita dal parallelo presente nel Corpo ermetico e nella Lettera ai Corinzi di Clemente.

I gentili sono quelli che non hanno speranza e sono senza Dio nel mondo (2,12). Una sola è la speranza ed è quella resa presente dalla redenzione di Cristo, che origina anche la chiamata universale.

La Lettera agli Efesini aggiunge, quindi, un preciso motivo della speranza: essa è fondata sulla chiamata o sulla scelta universale di Dio alla filiazione in Cristo. L’evento della redenzione in Cristo conferisce solidità alla chiamata e alla speranza, in vista del “giorno della redenzione” (Ef 4,30). Tutti i credenti hanno già ricevuto, per grazia, la redenzione mediante Cristo (Ef 1,17), e sono protesi verso l’ultimo giorno. La speranza della chiamata appartiene non al futuro, ma al passato della redenzione in Cristo, ed è assicurata dalla caparra dello Spirito in vista del suo compimento.

«La concentrazione progressiva della speranza su Cristo è il tratto più originale della prima tradizione paolina – afferma Pitta –, sino a diventare carattere identitario dell’essere credente» (p. 206).

La seconda tradizione paolina: le Lettere Pastorali (1Timoteo, Tito, 2Timoteo)

1Timoteo, Tito e 2Timoteo formano il blocco delle cosiddette Lettere Pastorali, rivolte a una o più comunità, che recuperano e attualizzano la persona e il pensiero di Paolo negli anni 70-80 d.C. Sono indirizzate a persone singole, i “pastori” delle comunità. In esse predomina la speranza salvifica e non quella epistolare.

2Tm 4,6-8 è il testamento postumo di Paolo che, con la metafora della libagione, le vele spiegate, la battaglia e la corsa in vista della corona di giustizia, è la sintesi finale sulla speranza. Solo in Tt 3,7 si ritrova l’affermazione che si è giustificati per grazia e solo in 1Tm 1,1 è scritto che Gesù Cristo è “la nostra speranza”.

Le Lettere Pastorali, siano state composte da un discepolo o dalle comunità stesse, hanno un ruolo essenziale nello sviluppo del pensiero paolino. In 1Timoteo emerge l’affermazione di Cristo nostra speranza (cf. 1Tm 1,1) e la metafora dell’agonismo sportivo. Tito si sofferma sulla giustificazione nella speranza, rapportata all’epifania della gloria. La lettera giunge al suo vertice con l’inno battesimale sulla benevolenza e filantropia di Dio (3,4-7).

In 2Timoteo si parla della speranza, senza però mai menzionare i termini “speranza”, “sperare”, “attendere” o “aspettare”. In 2Tm confluisce, tuttavia, gran parte delle metafore sulla speranza.

La lettera intende, fra l’altro, contrastare l’idea di una risurrezione senza futuro (2Tm 2,19). In realtà, questa è un’errata interpretazione di Ef 2,6. Anche se compiuta, infatti, la relazione con Cristo prosegue sino alla fine dei tempi. Da parte sua, 2Tm sposta l’attenzione sull’epifania o manifestazione definitiva del giorno in cui il giusto giudice consegnerà la corona di giustizia a Paolo e a quanti hanno amato la Sua manifestazione.

In 2Tm Paolo consegna a Timoteo il proprio testamento, in cui condensa il suo pensiero sulla speranza nelle metafore predilette: la libagione, le vele spiegate, la battaglia, la corsa e la corona.

Le Lettere Pastorali riducono quindi la speranza all’essenziale, poiché seguono il tracciato delle lettere autografe e della prima tradizione paolina.

In continuità con le lettere autografe, nelle Pastorali la speranza è incentrata sulla morte e risurrezione di Cristo. Nuova è l’identificazione tra Cristo e la speranza (1Tm 1,1): egli non è tale soltanto quando è relazionato al suo corpo che è la Chiesa, come per Colossesi. Cristo è la nostra speranza perché in lui la salvezza si è realizzata. Non c’è più distinzione tra la salvezza attribuita dall’AT e dal giudaismo a Dio e la speranza che è Cristo per il NT, poiché l’azione salvifica di Dio è di Cristo.

Le Pastorali non menzionano molto lo Spirito Santo, tranne nell’inno dedicato alla bontà e alla filantropia divine (Tt 3,4-7). I credenti sono stati salvati con il lavacro di rigenerazione e di rinnovamento dello Spirito, effuso su di loro in abbondanza. L’effusione dello Spirito (Rm 5,5) è ripresa nella Lettera a Tito per sottolineare la comunicazione tra la giustificazione e la speranza. Come per la Lettera ai Romani, per le Pastorali la speranza è la giustificazione per grazia tesa verso il compimento.

Le metafore impiegate riprendono quelle presenti nelle lettere autografe. Anche se Paolo non è più in vita, la comunità che ne conserva il ricordo le trasmette in 2Timoteo per sottolinearne l’esemplarità: la corona di giustizia attribuitagli per aver conservato la fede, sino all’effusione di sangue, è condivisa da quanti continuano ad amare la manifestazione del Signore Gesù.

La speranza salvifica

La speranza occupa quindi uno spazio dominante nel pensiero di Paolo. Non sembra possibile pensare – secondo Pitta – a una teologia della speranza né a una speranza escatologica, ma a “la speranza salvifica”. Essa è capace di incidere sulla salvezza, la salute e la sanità delle persone a cui si rivolge. È capace di raggiungere ogni persona umana nella sua integrità e non soltanto in una sua parte.

La speranza è generata dallo Spirito secondo un preciso schema: la caparra, la primizia, la promessa e l’elargizione. La speranza è radicata nell’evento della morte e risurrezione di Cristo. L’evangelo della speranza s’identifica, in ultima istanza, con Cristo, la nostra speranza (1Tm 1,1). Il Risorto rende presente la speranza mediante il suo Spirito.

Credere per la speranza contro la speranza (Rm 4,18) è il paradosso da attraversare. Il paradigma della speranza vede una spola costante tra la promessa, la realizzazione e il compimento.

Sacramenti della speranza sono – secondo Pitta – l’eucaristia e il battesimo, a condizione che siano ripensati in modo radicale. L’eucaristia è anticipazione dell’incontro finale. Contenuto essenziale della speranza eucaristica è l’altruismo radicale di Cristo “per voi” (1Cor 11,24), che dovrebbe ingenerare l’altruismo in chi partecipa alla cena del Signore, facendosi carico delle necessità dei poveri.

Se il battesimo insiste solo sulla purificazione dal peccato o sulla conversione, non incide sulla speranza. Quando, invece, innesta la partecipazione alla morte di Cristo in vista di quella alla sua risurrezione, il battesimo è ingresso e uscita dell’essere in Cristo e conclude la sua traiettoria soltanto nell’incontro con lui.

L’unica condizione per ricostruire la speranza oggi è, secondo lo studioso, la testimonianza. Di fronte alla morte, si danno tre esiti dominanti: la disperazione che sopprime la speranza, l’indifferenza stoica che la relativizza, e la speranza nell’incontro con chi ha amato.

L’ultima lettera autografa di Paolo annuncia la speranza nell’incontro con Cristo, il proprio vivere (Fil 1,21), nella gioia condivisa, nonostante la tribolazione e l’esito della possibile morte. Le metafore della speranza impiegate da Paolo sono tutte ricche di significato e originali nella loro espressione.

«Anche oggi l’evangelo della speranza è costretto ad affrontare molteplici sfide – scrive Pitta a conclusione della sua fatica –: dalla speranza di Narciso a quella del viandante nell’epoca della tecnica, sino alla speranza di chi, come Prometeo, ignora il senso del limite. Se la predicazione di Paolo sulla speranza è stata in grado di affrontare tali sfide è perché Gesù Cristo non è stato accolto come un fantasma, né come una divinità relegata in paradiso, ma come il Crocifisso, risorto e vivente mediante lo Spirito» (p. 227).

Il volume è corredato da numerose e sintetiche note che esprimono il dialogo accademico con i vari autori. E si conclude con l’Indice dei nomi (pp. 229-232).

Saggio denso di contenuti e dal taglio scientifico, l’opera di Pitta riassume gran parte del pensiero paolino e, in particolare, quello sulla speranza. Pur senza tecnicismi, l’opera richiede pazienza e attenzione nella lettura, che darà i frutti meditati e insegnati a lungo dall’autore in sedi accademiche prestigiose e in molteplici attività di divulgazione.

  • ANTONIO PITTA, Paolo e l’evangelo della speranza, Edizioni San Paolo, Cinisello B. (MI) 2024, pp. 240, € 22,00, ISBN 9788892244702.
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