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Abbiamo sentito dire ormai tante volte che negli ultimi anni l’accelerazione della crisi climatica ci ha permesso di vedere con i nostri occhi gli effetti del riscaldamento globale, rubando questo non invidiabile primato alle generazioni future. Di recente, abbiamo anche appreso di aver vissuto per la prima volta nella storia 12 mesi consecutivi su un pianeta più caldo di almeno 1,5 gradi rispetto a prima che iniziassimo a estrarre carbonio dai giacimenti fossili per poi spararlo in atmosfera. E 1,5 gradi, come forse oramai tutti sanno, è proprio la soglia di sicurezza che non dovremmo superare.

Sono stati certamente 12 mesi difficili dal punto di vista climatico, con aree del mondo devastate da inondazioni e altre arse dalla siccità. Ma non vorrei che ci stessimo illudendo che gli effetti dello squilibrio termico planetario che abbiamo prodotto bruciando miliardi di tonnellate di combustibili fossili in qualche decennio siano “solo” (“solo” bisognerebbe dirlo a quelli che li hanno subiti questi effetti) quelli che vediamo oggi. È davvero questo il mondo che ci aspetta superata la fatidica soglia di +1,5 gradi?

Facciamo un passo indietro, fino alla storica Conferenza di Parigi del 2015, per capire prima di tutto da dove diavolo viene questo numero magico. Quella Conferenza, infatti, fu storica non solo perché trovò il consenso di quasi tutti i Governi del mondo attorno al primo accordo globale sul clima, ma anche perché, per la prima volta e in modo anche un po’ imprevisto, introdusse la nuova soglia al riscaldamento globale, più bassa di mezzo grado rispetto al + 2 °C di cui si era sempre parlato fino a quel momento. “Mezzo grado in più, mezzo grado in meno che vuoi che sia in fondo…”: sicuri?

A partire dalla rivoluzione industriale a oggi, abbiamo già immesso in atmosfera quasi tremila miliardi di tonnellate di anidride carbonica (più altri gas serra) e, come abbiamo visto, abbiamo già abbondantemente e stabilmente superato l’aumento di 1 grado centigrado. In termini di emissioni, scendere da +2 a +1,5 °C rispetto al periodo pre-industriale si traduce in una drastica riduzione del nostro carbon budget, ossia della quantità di CO2 che possiamo ancora emettere da qui alla fine del XXI secolo per restare all’interno di una determinata temperatura. La nuova soglia, infatti, riduce questo budget da circa mille miliardi di tonnellate a poco più di 200 miliardi di CO2, quasi l’80% in meno: un budget che, continuando a bruciare gas, petrolio e carbone al ritmo del 2023, esauriremmo in appena 5 anni. È per questo che l’Accordo di Parigi si traduce in obiettivi così sfidanti, come quello di dimezzare entro il 2030 le emissioni mondiali di gas serra – emissioni che, è bene ricordare, con l’eccezione di qualche parentesi pandemica o da crisi finanziaria, non hanno mai smesso di crescere – e il raggiungimento delle zero emissioni nette entro il 2050. Obiettivi che sono sempre più spesso accusati da alcune parti di essere ideologici e privi di un valido fondamento scientifico.

La migliore risposta a tali accuse viene proprio dal principale fautore dell’introduzione del limite più stringente di 1,5 gradi, James Hansen, uno dei più importanti climatologi al mondo che, nel 2009, ha raccontato nel suo libro “Tempeste” cosa lo avesse spinto a considerare non più sufficientemente sicuro il precedente limite dei 2 gradi. Il libro è chiaro, avvincente e convincente e non posso che rimandare alla sua lettura per conoscere tutti i dettagli. In estrema sintesi, studiando la storia del clima della Terra e in particolare il rapporto tra temperature e concentrazioni di CO2 in atmosfera, Hansen fu tra i primi a rendersi conto che i modelli utilizzati fino a quel momento avevano sottostimato il contributo del riscaldamento degli oceani alla fusione delle calotte polari. E scoprì che, superata stabilmente la soglia di 1,5 gradi di aumento, si sarebbe innescata una serie di eventi a catena che avrebbero ulteriormente accelerato l’aumento della temperatura terrestre e portato alla completa fusione delle calotte polari non in diversi millenni, come si era pensato fino ad allora, ma in tempi estremamente più ridotti.

Questo vuol dire che, superata la “soglia di Hansen”, già i nostri figli o nipoti potrebbero ritrovarsi a vivere in un mondo senza più ghiacci, con temperature molto più alte di adesso e, soprattutto, con livelli del mare di diversi metri più alti di oggi che cancellerebbero la maggior parte degli insediamenti e delle aree produttive su cui si basa oggi la nostra civiltà. Ciò, unito a una potenziale nuova grande estinzione di massa causata da un riscaldamento troppo rapido per consentire a molte specie di adattarsi, porterebbe irreversibilmente alla fine della civiltà così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi millenni.

Quello che abbiamo sotto gli occhi è solo l’inizio, sono solamente i primi istanti dello scivolamento di una valanga di proporzioni inimmaginabili che ridisegnerà la faccia del nostro Pianeta. Tutto questo non solo è noto da anni, ma è talmente chiaro ed evidente che nel 2015 i rappresentanti dei Governi di tutto il mondo si sono convinti a mettere nero su bianco il nuovo limite di +1,5 gradi. Ciò che invece è davvero difficile da capire è perché, nonostante questa consapevolezza, ancora non ci siamo decisi ad agire: nel 2023 nuovo record delle emissioni mondiali di gas serra e nuovo record di concentrazione di CO2 in atmosfera.

A questo punto, prima della pausa estiva, dopo il consiglio di un libro anche quello di un film. Nel docufilm di Franny Armstrong “The age of stupid” (curiosamente anche questo uscito nel 2009), veniamo proiettati nell’anno 2055. La Terra e la Civiltà sono state devastate dalla crisi climatica indotta dall’uomo e un ricercatore, visionando spezzoni di film e altri documenti della nostra epoca, cerca inutilmente di rispondere a una semplicissima domanda: come è possibile che, pur avendo tutti i dati e le evidenze a disposizione e gli strumenti per farlo, abbiamo deciso di non agire?

 

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