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L’annuncio del ritiro di Joe Biden dalla corsa alla Casa Bianca e il passaggio di testimone a Kamala Harris hanno ridisegnato la mappa dei sostegni elettorali nella Silicon Valley. Negli ultimi tempi i rapporti tra l’aristocrazia tech californiana e il partito repubblicano di Donald Trump si erano trasformati in un complesso intreccio di interessi e ideologie. Molti venture capitalist e altre figure influenti del settore – storicamente democratico – avevano voltato le spalle a Biden, trovando un rifugio più accogliente nelle braccia dell’elefantino al motto: «meno tasse, meno regolamentazione». La nomina di J.D. Vance come candidato alla vicepresidenza nella campagna del tycoon aveva soddisfatto una parte di investitori e guru della San Francisco Area Bay: in molti avevano puntato le proprie fiches sul senatore trentanovenne dell’Ohio, i cui legami con la Silicon Valley risalgono a prima delle elezioni del 2016 (all’epoca lavorava per il miliardario Peter Thiel, cofondatore di PayPal e tra i primi investitori di Facebook).

Con l’uscita di scena di Biden lo scenario è cambiato un’altra volta. Kamala Harris, superfavorita per la successione, intrattiene con l’ambiente delle Big Tech una liaison più che decennale: il suo operato durante il mandato come procuratrice generale della California dal 2011 al 2017 – lo stesso settennato che ha definitivamente consolidato il potere del settore in una manciata di aziende – è stato apprezzato da una larga fetta dell’industria. Figure quali Sheryl Sandberg, ex direttrice operativa di Facebook, e Jony Ive, storico designer di Apple e ideatore dell’iPhone, hanno contribuito al finanziamento delle passate campagne della vicepresidente: dalle due elezioni per il ruolo di procuratrice generale fino alla candidatura per le primarie democratiche nel 2019 (in cui raccolse 1,5 milioni di dollari nelle prime ventiquattro ore, superando il record stabilito da Bernie Sanders nel 2016). I legami della Harris con la Silicon Valley riguardano anche la sfera familiare: il cognato Tony West è infatti Senior Vice President di Uber.

Come spiegato a Wired da Reid Hoffman, co-fondatore e presidente esecutivo di LinkedIn, negli ultimi mesi molti grossi donatori dem si sono tenuti a debita distanza dalla linfatica campagna elettorale di Biden. Lo stesso Hoffman, tuttavia, è sceso in campo subito dopo l’annuncio del ritiro dell’ottantunenne, definendo Harris «la persona giusta al momento giusto».  

Chi certamente non cambierà idea è Elon Musk, fresco di endorsement pubblico in favore di Trump, anche se recentemente ha smentito di donare quarantacinque milioni di dollari al mese al candidato repubblicano. Ma non ha specificato se ne sta donando di più o di meno. La progressiva maturazione di un’ideologia rigidamente anti woke ha completato la conversione politica del patron di Tesla in creatura repubblicana. In una recente intervista con Jordan Peterson, Musk ha rivelato di aver deciso di fare una campagna contro il movimento woke dopo essere stato raggirato da degli esperti che lo hanno convinto a firmare dei documenti per permettere al figlio Xavier di assumere ormoni bloccanti la pubertà. Musk ha mostrato subito la sua antipatia per Harris, cercando di ridicolizzarla su X.

Ma Musk non è solo. Tra i sostenitori che si erano messi contro Biden figura anche David Sacks, imprenditore cinquantenne formatosi nella cosiddetta «Mafia di PayPal», un gruppo di manager che dopo aver lavorato nella società di servizi di pagamento a inizio anni Duemila ha scalato i ranghi della Silicon Valley (nel circolo figurava anche Peter Thiel). Sacks, autore del fortunato podcast All-In, è stato consigliere di Musk nell’affare Twitter e da tempo fa parte di quel cerchio magico che esercita enorme influenza sul social network. Nel 2021 diceva che Trump non si sarebbe più potuto candidare dopo l’assalto a Capitol Hill. Oggi raccoglie fondi per la campagna dell’ex presidente.

Dopo le parole di Sacks, il tabù del sostegno a Trump tra i grandi nomi della valle è caduto. La lista è lunga: dall’ex dirigente di Facebook Chamath Palihapitiya a Shaun Maguire di Sequoia Capital, passando per Keith Rabois di Khosla Ventures. Lo stesso Mark Zuckerberg – che per questa tornata elettorale aveva dichiarato di non voler appoggiare nessuna delle due parti – ha definito «cazzuta» (badass) e «stimolante» la reazione immediata del tycoon dopo l’attentato in Pennsylvania: «Vedere Donald Trump alzarsi dopo essere stato colpito da un proiettile in faccia e alzare il pugno in aria con la bandiera americana è una delle cose più toste che abbia mai visto in vita mia», ha commentato l’amministratore delegato di Meta nel corso di un’intervista nel suo quartier generale a Menlo Park.

Come spiegato dal New York Times, l’influenza degli investitori che hanno deciso di virare a destra è aumentata nel tempo grazie a figure molto seguite sui social. Il mondo delle startup è cresciuto di otto volte dal 2012 al 2022, con una marea di temi del settore che si sono trasformati in veri e propri terreni di scontro politico (vedi l’intelligenza artificiale).

C’è poi il mondo delle criptovalute, compatto nel suo sostegno a Trump. Sia Donald che il suo nuovo vice Vance, del resto, si sono espressi in più occasioni a favore di un approccio morbido rispetto alla regolamentazione del denaro basato su blockchain, attirando milioni di dollari da figure di spicco del settore come Ben Horowitz e Marc Andreessen. Come sottolineato da The Verge, in occasione di un recente evento pubblico Vance ha criticato il presidente della Securities and Exchange Commission Gary Gensler per il suo approccio alle cripto, che è «quasi l’esatto opposto di quello che dovrebbe essere». Una strizzata d’occhio elettorale in perfetto stile Maga.

Tra gli altri nomi al centro dell’intricato flusso di rapporti tra la Silicon Valley e il partito repubblicano c’è anche quello del trentaquattrenne Jacob Helberg, analista di think tank e precoce opportunista politico che oggi ricopre un ruolo di punta nella Commissione per la revisione economica e di sicurezza Usa-Cina. Helberg è anche consulente di Palantir Technologies, azienda da oltre due miliardi di fatturato specializzata nell’analisi di big data, ed è stato uno dei principali promotori della legge per il bando di TikTok (approvata dal Congresso in aprile).

La sua posizione contro la proprietà del social network cinese gli è valsa il sostegno bipartisan e l’acclamazione pubblica di Trump in persona («Jacob, voglio ringraziarti»). Curioso per un ex democratico che aveva donato 1,5 milioni di dollari per la campagna democratica di Biden solo quattro anni fa, ma che grazie all’endorsement del tycoon ha avviato un’ascesa inarrestabile all’interno dei circoli repubblicani.

Helberg – che nel 2018 si è sposato in una cerimonia officiata da Sam Altman – ha molto da dire, in particolare sull’intelligenza artificiale (ambito chiave per Palantir), e Trump sembrerebbe ben disposto ad ascoltare. Non c’è da stupirsi: stando ai documenti della Federal Election Commission, il trentaquattrenne ha donato oltre un milione di dollari a gruppi politici che sostengono l’ex presidente. A Forbes ha scherzosamente detto di avere contatti con l’entourage del candidato repubblicano solo «a giorni alterni». Parlando ai giornalisti di The Information, invece, ha definito «una vera storia d’amore» il suo rapporto con la dottrina Maga. Un amore piuttosto libertino, visti i trascorsi democratici.

Come Trump, Helberg è convinto che le leggi esistenti disciplinino già il settore dell’IA in modo appropriato e ulteriori limitazioni burocratiche non farebbero che danneggiare gli Stati Uniti nella competizione con la Cina. Una posizione apprezzata da molti Ceo nei dintorni di San Francisco.

 

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