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La L. 111/2023 (c.d. Legge delega per la Riforma fiscale) contempla significative modifiche alla disciplina delle “società di comodo” di cui all’articolo 30, L. 724/1997. In seguito all’abrogazione della normativa riguardante le società in perdita sistematica a opera dell’articolo 9, D.L. 73/2022, la citata Legge delega prevede un corposo intervento in materia di “società non operative”. L’obiettivo dichiarato è quello di superare le rilevanti criticità emerse nel corso del tempo e giungere all’individuazione delle vere “società senza impresa”, riportando la disciplina alla sua ratio originaria di contrasto alle società che esercitano un’attività di mero godimento. La detenzione di strumenti finanziari (così come la detenzione di immobili) da parte di società holding deve essere valutata al fine di verificare i possibili impatti derivanti dall’applicazione di tale disciplina.

Disciplina generale delle “società di comodo

La disciplina delle società di comodo è finalizzata al contrasto dell’utilizzo della forma societaria per l’intestazione di beni che, in realtà, permangono nella disponibilità di soci o familiari.

Nello specifico, il Legislatore fiscale si è posto l’obiettivo di arginare il fenomeno dell’utilizzo di veicoli societari sostanzialmente privi di uno scopo lucrativo, in quanto finalizzati alla mera detenzione di beni nell’interesse esclusivo dei soci e non per il perseguimento di un’effettiva attività economica. Detto in altri termini, si è voluto evitare che le persone fisiche, schermando dietro un involucro societario i beni patrimoniali destinati al godimento personale, potessero ottenere indebiti vantaggi fiscali rappresentati dalla deducibilità dei costi relativi a tali beni nonché l’applicazione, al reddito prodotto da tali beni, della minore aliquota Ires in luogo delle aliquote progressive Irpef.

In tale contesto, quindi, si definiscono “società di comodo”, ai sensi dell’articolo 30, L. 724/1997, quelle società che il Legislatore presume non siano operative e risultino costituite soltanto a scopi elusivi. A esse viene obbligatoriamente attribuito, ai fini fiscali, un reddito minimo che è determinato sulla base dei valori fiscalmente riconosciuti di determinati beni, ponendo altresì rilevanti limitazioni all’utilizzo dei crediti Iva eventualmente risultanti dalla dichiarazione[1].

Sotto il profilo soggettivo, anche a seguito delle modifiche che si sono susseguite nel corso del tempo, la normativa sulle società di comodo trova applicazione, indipendentemente dal regime contabile adottato, a Spa, Sapa, Srl, Snc, Sas, società ed enti di ogni tipo non residenti con stabile organizzazione in Italia.

L’individuazione delle società che esercitano attività di mero godimento è affidata al c.d. “test di operatività”, e cioè al confronto tra i proventi risultanti dal Conto economico (ricavi effettivi) e quelli individuati applicando specifici coefficienti al valore fiscale delle seguenti categorie di beni (ricavi minimi presunti) detenute dal veicolo societario:

  • strumenti finanziari (ad esempio, partecipazioni al capitale sociale di soggetti passivi Ires e di società commerciali di persone, nonché strumenti finanziari similari alle azioni, obbligazioni e “altri titoli in serie o di massa”), anche se costituiscono immobilizzazioni finanziarie, e crediti di finanziamento;
  • beni immobili nonché navi, anche se detenuti in locazione finanziaria;
  • altre immobilizzazioni detenute dalla società, anche se in locazione finanziaria.

Qualora i ricavi effettivi siano inferiori rispetto ai ricavi minimi presunti, trova applicazione la presunzione (legale e relativa) del conseguimento, da parte della società, di un c.d. “reddito minimo presunto”, che è determinato applicando al valore dei beni rilevanti ai fini del test di operatività taluni coefficienti (diversi rispetto a quelli utilizzati ai fini del c.d. test di operatività). Il reddito minimo presunto costituisce la base imponibile ai fini sia Ires/Irpef sia Irap.

Inoltre, il mancato superamento del test di operatività comporta conseguenze anche ai fini Iva. Invero, l’eventuale eccedenza di credito Iva non è ammessa a rimborso, né può essere utilizzata in compensazione “orizzontale” oppure essere ceduta a terzi e, a determinate condizioni, non può essere portata a riduzione del debito Iva sorto in periodi d’imposta successivi.

Sono “esclusi” dalla disciplina delle società di comodo i soggetti che non rientrano tra quelli la cui natura giuridica è compresa nell’elencazione dell’articolo 30, comma 1, L. 724/1994, nonché quelli che, pur avendo una natura giuridica idonea a determinare l’applicabilità della disciplina in esame, rientrino in una delle cause di esclusione, ovvero abbiano avanzato apposita istanza di disapplicazione ai sensi del comma 4-bis della medesima disposizione, accolta dall’Agenzia delle entrate.

Più precisamente, vi sono “cause di esclusione” legate alla natura giuridica della società o dell’ente e cause di esclusione “automatica”. Rientrano nella prima ipotesi le società e gli enti che non ricadono nell’elencazione (tassativa) dell’articolo 30, comma 1, L. 724/1994: quindi, le società semplici; gli enti commerciali e non commerciali; le società consortili, cooperative e di mutua assicurazione; le società e gli enti non residenti privi di stabile organizzazione; le c.d. “start up innovative”.

Ricadono nella seconda ipotesi, andando a configurare cause di esclusione “automatica”, le società tenute per legge a costituirsi in forma di società di capitali, società che si trovano nel primo periodo d’imposta, società in amministrazione controllata o straordinaria, società quotate, controllate (anche indirettamente) da quotate o controllanti di quotate, società esercenti pubblici servizi di trasporto, società con numero di soci non inferiore a 50, società con numero di dipendenti mai inferiore a 10 unità nel triennio di riferimento, società in fallimento, liquidazione giudiziaria, liquidazione coatta amministrativa e concordato preventivo, società con valore della produzione superiore al totale dell’attivo patrimoniale, società partecipate da enti pubblici almeno nella misura del 20% del capitale sociale e società affidabili in base agli Isa[2].

Come avremo modo di constatare, le medesime esclusioni “valevano” per le società in perdita sistematica, per cui, se la società versava in una delle situazioni sopra indicate nel periodo d’imposta per il quale veniva presentata la dichiarazione, essa non era soggetta ad alcuna delle 2 discipline.

Per quanto concerne poi le “cause di disapplicazione”, si rileva che le medesime sono state individuate con provvedimento dell’Agenzia delle entrate del 14 febbraio 2008, successivamente integrato dal provvedimento dell’Agenzia delle entrate dell’11 giugno 2012. Tali cause di disapplicazione “automatica” devono essere verificate con riferimento al periodo di imposta in cui la società risulta di comodo. Tra le diverse fattispecie vi è anche quella delle società holding.

Le altre fattispecie sono le seguenti: società in liquidazione che si impegnano a cancellarsi dal Registro Imprese entro il termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi successiva, società in fallimento, liquidazione coatta amministrativa o giudiziaria, concordato preventivo, amministrazione straordinaria, società sottoposte a sequestro penale o confisca, società con immobili concessi in locazione a enti pubblici o a canone vincolato, società che hanno ottenuto la disapplicazione in precedenti periodi di imposta, società che esercitano esclusivamente attività agricola; società per le quali gli adempimenti e i versamenti fiscali sono sospesi o differiti in conseguenza della dichiarazione dello stato di emergenza.

Con specifico riferimento alle “società in perdita sistematica” valevano le nuove cause di disapplicazione previste dal provvedimento dell’Agenzia delle entrate dell’11 giugno 2012. Esse dovevano essere verificate in uno qualsiasi dei periodi di imposta appartenenti al quinquennio chiuso in perdita.

Le cause di disapplicazione automatica per le società in perdita sistematica erano: società in liquidazione che si impegnano a cancellarsi dal Registro Imprese entro il termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi successiva, società in fallimento, liquidazione coatta amministrativa o giudiziaria, concordato preventivo, amministrazione straordinaria, società sottoposte a sequestro penale o confisca, società holding; società che hanno ottenuto risposta positiva all’interpello in relazione a precedenti periodi d’imposta, in merito a presupposti non modificatisi; società con margine operativo lordo positivo (differenza tra gli aggregati A e B del Conto economico, escluse le voci B.10, B.12 e B.13 e – secondo quanto chiarito dalla risoluzione n. 107/E/2012 – i canoni di leasing), società i cui versamenti tributari sono sospesi o differiti in conseguenza della dichiarazione dello stato di emergenza, società per le quali risulta positiva la somma algebrica tra la perdita fiscale e gli importi che non concorrono alla formazione del reddito (proventi esenti, esclusi, assoggettati a ritenuta a titolo d’imposta o imposta sostitutiva, agevolazioni), società agricole, società congrue e coerenti in base agli Isa, società nel primo periodo d’imposta.

Occorre evidenziare che, a differenza delle cause di esclusione, le cause di disapplicazione previste nel citato provvedimento dell’Agenzia delle entrate dell’11 giugno 2012 esplicavano efficacia se verificate in uno qualsiasi dei periodi d’imposta facenti parte del suddetto periodo.

 

Holding che detengono strumenti finanziari

Le società holding che detengono partecipazioni in una o più società operative, e che investono le risorse economiche derivanti da tali partecipazioni in strumenti finanziari[3], potrebbero essere interessate dalla disciplina sulle società di comodo e, quindi, subire le penalizzazioni previste dal citato articolo 30, L. 724/1994, qualora abbiano una redditività inferiore rispetto a quella risultante dall’applicazione dei coefficienti previsti dalla norma e non rientrino in alcuna causa di disapplicazione sopra indicata.

È d’uopo evidenziare che l’Agenzia delle entrate, con il citato provvedimento 14 febbraio 2008, ha chiarito che le società che detengono partecipazioni in società considerate non di comodo possono disapplicare automaticamente la disciplina sulle società di comodo di cui all’articolo 30, L. 724/1994, senza dover assolvere all’onere di presentare apposita istanza di interpello[4].

Il documento citato ha però precisato che tale causa di disapplicazione ha valenza “parziale”, nel senso che è limitata soltanto alle predette partecipazioni (quindi, alle partecipazioni in società non di comodo). Ciò significa che il test di operatività non dovrà prendere in considerazione il valore di tali partecipazioni e che i relativi proventi (ad esempio, dividendi) dovranno essere sterilizzati ai fini del confronto tra i ricavi effettivi e i ricavi minimi. Qualora la società holding, all’esito di tale operazione, dovesse comunque non superare il test di operatività, le partecipazioni detenute nelle società non di comodo non dovranno essere considerate in sede di determinazione del reddito minimo eventualmente da dichiarare ai fini delle imposte sui redditi e dell’Irap.

In questa eventualità, tuttavia, la società holding potrebbe comunque tentare di dimostrare le “circostanze oggettive” che hanno impedito di conseguire i ricavi o il reddito minimi[5], fermo restando che le stesse devono essere puntuali, specifiche e indipendenti dalla volontà del contribuente[6]. Sul punto, premesso che l’operatività di una società holding dipende anche dalla distribuzione di dividendi da parte delle società partecipate, sussistono alcune “oggettive situazioni” che possono assumere rilevanza ai fini della disapplicazione della disciplina in esame, quali (a titolo esemplificativo)[7]:

– società partecipate con riserve di utili non sufficienti, in caso di integrale distribuzione, a consentire alla holding di superare il test di operatività;

– mancata distribuzione di dividendi da parte delle partecipate dovuta alla necessità di coprire con le riserve di utili esistenti le perdite conseguite;

– società partecipate che si trovano in fase di avvio dell’attività;

– società partecipate che operano in settori in crisi;

– società costituite quali special purpose vehicle (SPV), che dimostrano di dover necessariamente impiegare i proventi conseguiti dalla società target per il rimborso dei debiti contratti per l’acquisto della target stessa”.

Sempre in tale contesto, è stato chiarito che, nel caso di società partecipata senza riserve di utili distribuibili, si è comunque in presenza di una causa oggettiva di disapplicazione ove l’unica riserva teoricamente distribuibile sia quella straordinaria, ma la stessa debba essere completamente utilizzata per la copertura delle perdite[8]. Al riguardo, si è altresì precisato che non può imputarsi al contribuente la mancata distribuzione delle riserve in sospensione, con conseguente obbligo – non proponibile – di rinunciare al beneficio previsto dalla norma che ha introdotto il vincolo di sospensione.

Invece, nella ipotesi in cui la società partecipata disponga di utili d’esercizio potenzialmente sufficienti ma scelga di non distribuirli[9]:

costituisce … circostanza utile ai fini dell’accoglimento dell’istanza disapplicativa il fatto che la società partecipata, pur disponendo di utili e riserve di utili teoricamente sufficienti – in ipotesi di integrale distribuzione – a consentire il superamento del test di operatività da parte della holding partecipante, non abbia proceduto alla relativa distribuzione in attuazione di un piano di autofinanziamento finalizzato al concreto rafforzamento dell’attività produttiva, sempreché venga dimostrato che l’utile sia stato (o sarà) effettivamente investito[10].

Parimenti, in ambito giurisprudenziale si rinvengono pronunce di similare tenore, nelle quali la Corte di Cassazione ha sostenuto che la mancata distribuzione di utili da parte della società partecipata configuri comunque quella “impossibilità oggettiva’’ estranea alla volontà della contribuente, che legittima la disapplicazione della disciplina sulle società di comodo[11].

In alcuni, più recenti, arresti giurisprudenziali[12] la Suprema Corte ha poi affermato che, al fine di superare la presunzione legale relativa di non operatività:

l’onere probatorio può essere assolto non solo dimostrando che, nel caso concreto, l’esito quantitativo del test di operatività è erroneo o non ha la valenza sintomatica che gli ha attribuito il legislatore, giacché il livello inferiore dei ricavi è dipeso invece da situazioni oggettive che ne hanno impedito una maggior realizzazione; ma anche dando direttamente la prova proprio di quella circostanza che, nella sostanza, dal livello dei ricavi si dovrebbe presumere inesistente, ovvero dimostrando la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva, caratterizzata dalla prospettiva del lucro obiettivo e della continuità aziendale, e dunque l’operatività reale della società”.

Ciò significa che la prova contraria può essere offerta, secondo il ragionamento della Cassazione, mediante la dimostrazione non solo delle cause oggettive di mancato conseguimento di ricavi ex articolo 30, comma 4-bis, L. 724/1994, ma anche dell’esercizio di un’effettiva attività d’impresa da parte della società che si presume essere non operativa.

Sul punto, la Suprema Corte[13] ha precisato altresì che costituiscono elementi decisivi, da valutare adeguatamente al fine di accertare lo svolgimento o meno di una vera e propria attività d’impresa da parte della società holding:

  • la rilevante esposizione debitoria nei confronti delle banche, che potrebbe far presumere che il sistema creditizio percepisca la società come un vero e proprio operatore economico in grado di remunerare i finanziamenti ricevuti;
  • l’esistenza di rapporti di finanziamento intrattenuti con le società partecipate,
  • lo svolgimento di attività di assistenza finanziaria e di ricerca di mezzi finanziari per le partecipate, rilasciando in loro favore garanzie fideiussorie.

Da ultimo, si rileva che la Cassazione ha ravvisato lo svolgimento di un’attività d’impresa della società holding anche sulla base della documentazione attestante le movimentazioni finanziarie (nella specie, prestiti erogati dai soci persone fisiche della holding) della società in favore delle partecipate, cui seguiva la ricezione dei rimborsi e la restituzione delle somme ai soci medesimi[14].

 

Scenari nel prossimo futuro

L’indagine condotta ha permesso di evidenziare che, a oggi, il mancato svolgimento di un’attività economica da parte di una società viene presunto unicamente sulla base di un dato meramente quantitativo, con la conseguenza che potrebbero essere penalizzate anche quelle società che svolgono un’effettiva attività economica, ma che non riescono a realizzare proventi in misura sufficiente a superare il test di operatività.

Sembrerebbe però che il Legislatore abbia preso finalmente atto che la disciplina in esame presenta molteplici criticità e che sia ormai necessario:

operare una profonda revisione della disciplina delle società non operative, prevedendo criteri specifici, da aggiornarsi periodicamente, che consentano di individuare le società senza impresa, riconducendo così la normativa alla sua ratio originaria di contrastare le società che esercitano un’attività di mero godimento e non un’effettiva attività d’impresa”.

Infatti, tra i princìpi direttivi contenuti nella L. 111/2023, c.d. “Delega al Governo per la Riforma fiscale”, l’articolo 9, comma 1, lettera b), prevede la revisione della disciplina delle società di comodo sotto 2 aspetti:

  • l’individuazione di nuovi “parametri”, da aggiornare periodicamente, che consentano di individuare le società senza impresa, tenendo anche conto dei princìpi elaborati, in materia di Iva, dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia UE;
  • la determinazione di cause di esclusione che tengano conto, tra l’altro, dell’impiego di un congruo numero di lavoratori dipendenti e dello svolgimento di attività in settori economici oggetto di specifica regolamentazione normativa.

Da un lato, il Legislatore auspica l’individuazione di “criteri specifici” alla stregua dei quali individuare le società senza impresa, in modo da riportare la normativa in esame alla sua ratio originaria di contrastare le società che esercitano un’attività di mero godimento e non un’effettiva attività d’impresa.

Al mutamento terminologico che individua tali criteri specifici non più nei coefficienti, ma nei parametri idonei a configurare elementi sintomatici dell’esistenza di una “società senza impresa”, sembrerebbe tuttavia contrapporsi la permanenza di un meccanismo di tipo presuntivo che conduca dal fatto noto (ovvero, l’esistenza dei parametri individuati dal Legislatore) al fatto ignoto (quindi, l’esistenza di una società senza impresa).

Per quanto concerne invece il riferimento ai princìpi elaborati, in materia di Iva, dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia UE, appare evidente che esso considera l’opportunità di uniformare i criteri utilizzati per individuare le società senza impresa a quelli che, ai fini Iva, individuano le “società di mero godimento”, e cioè quelle società che non esercitano un’attività d’impresa, anche in deroga alla presunzione assoluta di commercialità riguardante le società di capitali e quelle commerciali di persone.

Nel richiamare l’articolo 4, comma 5, D.P.R. 633/1972[15], la Relazione illustrativa al citato DDL, con riferimento alle holding “statiche”, supera la suddetta presunzione di commercialità arrivando a negare, in presenza dei requisiti previsti dalla norma, lo svolgimento di un’attività commerciale e per l’effetto, nel caso in cui svolga solo tale attività, lo status di soggetto passivo Iva, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte di Giustizia UE[16]. Invece, nel caso delle holding “dinamiche”, ovvero di quelle società dotate di strutture in grado di esercitare attività finanziarie o, comunque, di indirizzo, coordinamento e gestione delle partecipate, dovrebbe ancora ritenersi che si tratti di società che svolgono un’effettiva attività economica.

Ciò detto, il Legislatore delegato dovrà stabilire altresì quale sia la sanzione in caso di utilizzo abusivo di schermi societari. Ai fini delle imposte sui redditi, un’ipotetica soluzione potrebbe risiedere nell’applicare un meccanismo analogo a quello previsto ai fini Iva, considerando tali società come soggetti trasparenti e, dunque, con tassazione per trasparenza in capo ai soci.

Dall’altro lato, il Legislatore auspica la determinazione di “cause di esclusione” in funzione anche dell’esistenza di un congruo numero di lavoratori dipendenti e dello svolgimento di attività in settori economici oggetto di specifica regolamentazione normativa. A tal fine, si potrebbe fare riferimento anche all’ampio ventaglio di cause di esclusione e disapplicazione previste dalla disciplina vigente.

In definitiva, la Legge delega per la riforma fiscale, con l’intento di individuare le “società senza impresa” che siano effettivamente tali, prevede modifiche significative alla disciplina delle società di comodo, onde evitare che, così come accaduto sino a oggi, vengano penalizzate anche quelle società che esercitano un’effettiva attività d’impresa.

 

[1] A seguito delle modifiche apportate dal D.L. 138/2011 è stata introdotta una maggiorazione Ires del 10,5% per le società considerate non operative ai sensi dell’articolo 30, L. 724/1994. La citata novella ha previsto altresì la fattispecie delle c.d. società “in perdita sistematica”, intendendosi tali le società e gli enti che presentano dichiarazioni fiscali in perdita per 5 periodi d’imposta consecutivi, ovvero, sempre per lo stesso periodo di osservazione, presentino indifferentemente 4 dichiarazioni dei redditi in perdita fiscale e una quinta con il reddito imponibile inferiore a quello minimo presunto. I soggetti in perdita sistemica, pertanto, dal sesto periodo di imposta, prescindendo dal test di operatività sui ricavi, scontano gli stessi effetti fiscali dell’intera disciplina delle società di comodo. Da ultimo, la normativa riguardante le società in perdita sistematica è stata abrogata dall’articolo 9, D.L. 73/2022.

[2] Nel tempo l’Agenzia delle entrate ha fornito chiarimenti rilevando che non rientrerebbero nei casi di esclusione ex lege: le società che hanno affittato l’unica azienda posseduta (circolare n. 25/E/2007), le società neocostituite per effetto di fusioni, scissioni o conferimenti che continuano di fatto l’attività del “dante causa” ovvero risultanti da operazioni di trasformazione (circolare n. 25/E/2007), le società che operano nel settore dei trasporti pubblici solo indirettamente, in quanto detengono partecipazioni in imprese di trasporto pubblico (risoluzione n. 43/E/2007), le società agricole che optano per la tassazione su base catastale ai sensi dell’articolo 1, comma 1093 e ss., L. 296/2006 (nota DRE Emilia Romagna prot. 909-44164 del 1° ottobre 2009).

[3] Generalmente viene perseguita una strategia di diversificazione del rischio, per cui le società holding si ritrovano a detenere strumenti finanziari che presentano caratteristiche molto diverse tra loro.

[4] In particolare, l’articolo 1, lettera e), provvedimento dell’Agenzia delle entrate del 14 febbraio 2008 prevede la disapplicazione per le: “società che detengono partecipazioni in: 1) società considerate non di comodo ai sensi dell’articolo 30 della legge n. 724 del 1994; 2) società escluse dall’applicazione della disciplina di cui al citato articolo 30 anche in conseguenza di accoglimento dell’istanza di disapplicazione […]. La disapplicazione opera limitatamente alle predette partecipazioni”.

[5] Cfr. circolare n. 9/E/2008 (§ 6).

[6] Cfr. circolari n. 5/E/2007 e n. 44/E/2007. In giurisprudenza, cfr. Cassazione n. 9852/2018, n. 3063/2019 e n. 1127/2023.

[7] Cfr. circolare n. 5/E/2007 (§ 4.4).

[8] Cfr. circolare n. 44/E/2007 (§ 4.3).

[9] Cfr. circolare n. 25/E/2007 (§ 8).

[10] Tuttavia, con successiva circolare n. 47/E/2008 (§ 6.1) l’Agenzia delle entrate ha precisato che non può costituire, di per sé, una situazione oggettiva di disapplicazione la: “semplice circostanza che la società partecipata non proceda alla distribuzione di dividendi, al solo fine di non dover poi ricorrere a finanziamenti di terzi che potrebbero produrre interessi passivi indeducibili”.

[11] Cfr. Cassazione n. 8034/2021. Nella specie, l’Amministrazione finanziaria sosteneva che la mancata distribuzione di dividendi da parte della società partecipata, finalizzata al proprio rafforzamento patrimoniale, non potesse costituire causa oggettiva di disapplicazione della normativa antielusiva.

[12] Cfr. Cassazione n. 4946/2021, n. 26219/2021 e n. 9339/2023.

[13] Cfr. Cassazione n. 4850/2020.

[14] Cfr. Cassazione n. 3852/2016.

[15] La indetraibilità dell’Iva è stata, inoltre, stabilita nei riguardi delle holding di gestione, in caso di possesso, non strumentale né accessorio ad altre attività esercitate, di partecipazioni o quote sociali, di obbligazioni o titoli similari, costituenti immobilizzazioni, al fine di percepire dividendi, interessi o altri frutti, senza strutture dirette a esercitare attività finanziaria ovvero attività di indirizzo, di coordinamento o altri interventi nella gestione delle società partecipate.

[16] Cfr. ex multis, Corte di Giustizia UE sentenze causa C-320/17 del 5 luglio 2018, causa C-249/17 del 17 ottobre 2018, causa C-502/17 dell’8 novembre 2018 e causa C-98/21 dell’8 settembre 2022.

Si segnala che l’articolo è tratto da “La rivista delle operazioni straordinarie.

 

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