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Intervento alla cerimonia di commemorazione di Boris Giuliano

Scuola della Polizia di Stato (Roma, 23 luglio 2024)

Saluto con deferenza il Presidente della Repubblica, al quale porgo gli auguri più fervidi nel giorno del suo compleanno, esprimendo la mia gratitudine di cittadino e di magistrato per la guida saggia e illuminata che Egli assicura alla vita repubblicana.

Ringrazio il Capo della Polizia per l’iniziativa di dedicare al nome di Giorgio Boris Giuliano uno degli edifici di questa prestigiosa Scuola.

Una scelta che contribuisce a rinnovare il dovere di inchinarsi dinanzi al ricordo di un coraggioso servitore dello Stato, ma che impone anche di riconoscere il debito morale generato dalla consapevolezza che quel delitto fu il terribile epilogo di una vicenda profondamente segnata dalla solitudine istituzionale della vittima.

Una condizione che rese agevole il calcolo che precede l’assassinio: come era già avvenuto e come sarebbe ancora accaduto in quella Sicilia dove, secondo le parole dello storico Salvatore Lupo, negli ambienti polizieschi e giudiziari la maggioranza restava al riparo dell’ordinaria amministrazione, “per incapacità, o pigrizia, o paura, o complicità”.

Una condizione che rendeva immediatamente riconoscibili, non soltanto agli occhi di cosa nostra, i “morituri”: i pochi che sapevano dare prova di impegno efficace e intelligente. 

È ciò che avvenne per Boris Giuliano. 

La moglie Ines Maria, alla quale va oggi il mio omaggio devoto, lo ricordò ancora nell’aprile 1981 in una drammatica lettera al CSM, indicando i comportamenti passivi e remissivi di magistrati del tempo come fattore determinante dell’isolamento di un uomo inevitabilmente esposto alla rappresaglia mafiosa.

Fu così per Boris Giuliano. 

Così come sarebbe stato da lì a poco anche per Cesare Terranova, Gaetano Costa e Giangiacomo Ciaccio Montalto.

Anche loro vittime di una violenza mafiosa che si scatenava quando ormai la vittima era già isolata in ambienti nei quali imperava la tentazione a lasciar andare tutto, senza concludere niente: per incompetenza, rassegnazione, indifferenza o compromissione.

Ben si comprende allora il senso profondo delle amare conclusioni che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino consegnarono nella sentenza-ordinanza che diede forma al Maxi processo, scrivendo: “se altri organismi statali avessero adeguatamente compreso e assecondato l’intelligente impegno investigativo del Giuliano probabilmente le strutture organizzative della mafia non si sarebbero così enormemente potenziate e molti efferati assassini, compreso quello dello stesso Giuliano, non sarebbero stati consumati”.

Parole che muovevano dal riconoscimento del grande valore delle indagini, “accurate e fruttuose”, che avevano condotto Boris Giuliano a scorgere, prima di tutti, il ruolo assunto da cosa nostra nel traffico internazionale degli stupefacenti e a percorrere con determinazione e lungimiranza le strade della cooperazione internazionale, innanzitutto con le agenzie americane che indagavano sulle importazioni dalla Sicilia della morfina base che inondava le strade di New York.

Per comprendere il significato innovatore dell’opera di Boris Giuliano basterebbe ricordare la modernità di un suo rapporto del 7 maggio 1979: “Accertamenti su attività illecite condotte dal crimine organizzato in Italia e negli U.S.A., con pagamenti attraverso operazioni bancarie”.

Per la prima volta, le indagini su Cosa Nostra si proiettavano verso quel medesimo sistema bancario che vedeva in Sicilia un cugino di Stefano Bontade, allora capo della famiglia di Santa Maria di Gesù, ricevere, quale dirigente di una banca di Palermo, le richieste di informazioni del Commissario Giuliano su un’operazione di riciclaggio di 300.000 dollari del tempo che quello stesso mafioso col colletto bianco aveva disposto sotto falso nome.

Una vicenda, come avrebbe in seguito sottolineato Giovanni Falcone, che rivelava, oltre all’impegno profondo di Boris Giuliano, la sua condizione di pratica solitudine.

Falcone ne trasse una lezione fondamentale per sviluppare le indagini che, muovendo dalle intuizioni di Boris Giuliano, egli condusse sul cruciale versante dei traffici di droga fra Sicilia e Stati Uniti: occorreva procedere in modo sistematico, accumulando e verificando dati, informazioni e fatti “fino a quando la testa scoppia”, come ebbe a dire nel 1991 nella sua famosa intervista a Marcelle Padovani. 

Il cambiamento fu reso possibile, dunque, solo da un’organizzazione radicalmente nuova delle indagini, sottratte alla sorte del lavoro solitario, come quello che Boris Giuliano era stato invece costretto ad intraprendere.

A ben vedere, dunque, la terribile vicenda di Boris Giuliano fu dunque una delle radici profonde dell’esperienza del pool antimafia di Palermo.

Un’altra, ancor più profonda, radice muoveva dalla consapevolezza che la minaccia mafiosa gravava ormai sulle stesse sorti della democrazia italiana, come l’omicidio del presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella aveva rivelato in modo eclatante e sinistro.

Una minaccia mafiosa che vedeva moltiplicare i suoi effetti destabilizzanti nell’obiettivo intreccio:

  • da un lato, con le oscure trame eversive che il 2 agosto 1980 avrebbero raggiunto l’acme sanguinario con la strage neofascista della Stazione di Bologna,
  • e, dall’altro lato, con la corruzione mafiosa del sistema finanziario italiano rivelata dal crack della Banca Privata Italiana di Michele Sindona e dalla coraggiosa azione di denuncia dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso a Milano appena dieci giorni prima di Boris Giuliano, per mano di un sicario mafioso ingaggiato a NYC dallo stesso Sindona, come la collaborazione dell’F.B.I. consentì di comprendere e di dimostrare in giudizio.

È importante ricordare oggi quella condizione di grave pericolo per la stabilità delle istituzioni democratiche, anche per comprendere appieno il valore di indagini che per la prima volta si proiettavano su due decisivi versanti: 

  • la ricostruzione delle ricchezze mafiose ruotanti attorno all’oltremodo opaco sistema bancario del tempo,
  • la ricerca di interessi e presenze mafiose oltreoceano, e, dunque, l’apertura di canali privilegiati di collaborazione con altri Stati: innanzitutto, con gli Stati Uniti d’America.

 

Due direttrici di marcia nuove e feconde, che avrebbero dato grandi frutti negli anni successivi e che continuano anche oggi ad avere grande importanza. 

 

Lo dimostrano le recenti indagini della Procura di Palermo e dell’United States Attorney Office for the Eastern District of New York, ancora una volta con il supporto dell’F.B.I.

 

Indagini che rivelano incredibili linee di continuità con quelle di Boris Giuliano, come dimostrato, ancora nel novembre 2023, dal nuovo arresto di quello stesso mafioso che il Commissario Giuliano aveva denunciato con il rapporto del 7 maggio 1979 che ho prima ricordato.

 

La collaborazione fra Italia e Stati Uniti è destinata a produrre ancora frutti importanti sull’asse Palermo-New York, ma ha un valore strategico su scala globale.

Noi lavoriamo innanzitutto per aprire ed estendere sempre più le strade della cooperazione internazionale nel contrasto della forza destabilizzante del narcotraffico e del riciclaggio dei relativi, enormi proventi. 

Le tre giornate di lavoro fra decine di procuratori italiani e latino-americani svoltesi a Palermo in occasione del 32° anniversario della strage di Capaci stanno lì a dimostrarlo.

Un lavoro gomito a gomito, che ha generato nuove, importanti squadre investigative comuni e soluzioni condivise a tanti problemi delle più tradizionali forme di cooperazione giudiziaria: un incontro importante, che l’anno prossimo si rinnoverà a Rotterdam, come concordato con il Procuratore nazionale olandese e i Procuratori generali latino-americani. 

Occorre proiettare sistematicamente le nostre indagini sulla dimensione globale del crimine organizzato, elaborando e condividendo progetti investigativi ambiziosi, necessari soprattutto per ricostruire i flussi finanziari a monte e a valle dei traffici di stupefacenti. 

Abbiamo bisogno di sviluppare le nostre conoscenze sulla struttura e le logiche delle organizzazioni criminali che governano le rotte del narcotraffico internazionale, dando vita a network integrati che si avvalgono di una gigantesca rete logistica e di comuni strategie di occultamento e reinvestimento speculativo dei profitti dei traffici.

Un lavoro essenziale anche per cogliere la progressiva integrazione nella logica dei mercati criminali globali delle dinamiche evolutive di ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra, ma soprattutto per illuminare i legami profondi del narcotraffico con i fenomeni di corruzione e finanziamento del terrorismo che si registrano su scala globale.

Serve insomma un deciso cambio di passo, abbandonando le asfittiche e vanagloriose logiche di indagini volte al mero sequestro di carichi di droga, la perdita dei quali spesso rappresenta per i narcos un costo già preventivato e talvolta persino sotterraneamente negoziato.

È necessario alzare lo sguardo e indirizzare le indagini verso le componenti più sofisticate delle organizzazioni criminali, come tali chiamate a guidarne i processi di trasformazione tecnologica e le strategie di mimetizzazione finanziaria. 

Per farlo occorre rapidamente recuperare il grave gap tecnologico che rallenta l’azione delle nostre straordinarie forze di polizia e rischia di tenerle lontane dalle linee più avanzate della collaborazione internazionale.

Soprattutto, occorre condividere strategie investigative di più ampio respiro, possibili soltanto condividendo quel paziente lavoro di accumulazione, analisi ed elaborazione di dati e informazioni che Giovanni Falcone conduceva fino a farsi “scoppiare la testa” e che tutt’oggi non ha alternative credibili ed anzi può essere sostenuto e reso più efficace dalle nuove tecnologie digitali.

Una strada obbligata. 

Anche per evitare pericolosi arretramenti del modello italiano di indagini sulla criminalità organizzata al quale, per la profonda conoscenza dei fenomeni criminali e il rigore dei metodi di lavoro, molti, in tutto il mondo, guardano con fiducia.

Un modello ammirato anche perché è costato, purtroppo, il sangue di alcuni e, per fortuna, il sudore di tanti. 

Leggere il nome di Giorgio Boris Giuliano all’entrata dell’edificio a lui dedicato aiuterà molti a ricordare il dovere di non disperdere quel patrimonio di esperienza e di credibilità.

 

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