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Negli ultimi tempi, siamo stati testimoni di alcuni paradossi. In tema di pace, sono i paesi più reazionari e conservatori a volere l’avvio di una trattativa nella guerra tra Nato e Russia mentre i partiti del centro-sinistra sono più proni ai diktat della Nato. In Italia, in tema di nazionalismo, la sinistra (che dovrebbe essere internazionalista) sventola tricolori in aula mente la destra (che si suppone nazionalista) fa sfoggio del più bieco regionalismo. Dulcis in fundo, i partiti di derivazione neofascista si dichiarano pro Israele e pro ebrei e accusano i partiti di sinistra di essere antisemiti. Sembra di essere in un mondo capovolto.

MA C’È UN CAMPO in cui la destra mantiene intatta la sua tradizione storica di forza corporativa, antisociale e reazionaria: è il campo della politica economica. Il libro di Mario Pomini (Anatomia del populismo economico. La melonieconomics: un anno di politiche economiche conservatrici, ombre corte, pp. 202, euro 18) ce lo conferma ampiamente.

OCCORRE però ricordare che le scelte di politica economica del governo Meloni si sono mosse nel solco già tracciato dai governi precedenti. Il primo capitolo del libro («Verso la melonieconomics») lo documenta diffusamente. I capitoli seguenti affrontano invece i capisaldi dell’ideologia economica della destra populista e sono la raccolta di diversi interventi scritti dall’autore su alcuni blog a partire da quello su Il Fatto quotidiano.
Si discute del «virus» della tassa piatta (flat tax), a cui l’autore ha dedicato una precedente monografia (Il prisma della flat tax, sempre edito da ombre corte, 2021), per poi affrontare in modo più generale i pilastri della politica fiscale, tra riduzione del cuneo fiscale come salario assistenziale ma non universale, la proposta di riforma fiscale che riduce la progressività sull’Irpef e, al contempo, aumenta l’imponibile delle partite Iva con regime di flat tax al 15%, il non rinnovo dei contratti dei pubblici dipendenti, per poi partorire, dopo roboanti dichiarazione di rottura con il passato, una manovra finanziaria per il 2024 che poco o nulla ha di nuovo.

PIÙ INCISIVE sono state invece le decisioni relative alla parte destruens: il forte ridimensionamento del reddito di cittadinanza, lo smantellamento del super bonus e la pervicace opposizione all’introduzione di un salario minimo. Si tratta delle poche misure che (con l’eccezione del salario minimo, la cui assenza è responsabilità anche dei precedenti governi di centro sinistra e tecnici) potevano incidere positivamente sulla domanda interna, uno dei fattori principali che spiega la stagnazione oramai strutturale dell’economia italiana.
La politica economica della Meloni si colloca così all’interno della logica della supply economics (politica dell’offerta). Si tratta del classico schema pro impresa secondo il quale condizione sufficiente per stimolare la crescita economica sia favorire gli investimenti delle imprese tramite, da un lato, incentivi fiscali e, dall’altro, la riduzione del costo del lavoro, grazie a politiche di stagnazione salariale e di precarizzazione del lavoro. «Non bisogna disturbare chi produce» è uno dei mantra della premier Meloni. E poiché chi produce ha come finalità il profitto, la politica economica deve favorire la crescita del profitto. È evidente la finalità politica di classe di tale scelta economica, non a caso portata in auge durante la Reaganomics.

MA A DIFFERENZA dei governi precedenti, l’attuale governo meloniano sembra avere qualche problema con i numeri, sviluppando «un atteggiamento schizofrenico nei confronti dei dati economici che vengono demonizzati, oppure ignorati, se negativi e invece esaltati in maniera parossistica se positivi». Il dato più allarmante, in totale contraddizione con le dichiarazioni rilasciate, è la mancanza di interventi di carattere strutturale, che invece avevano caratterizzato alcune amministrazioni precedenti, sia in senso negativo (l’aumento dell’età pensionabile del governo Monti o la liberalizzazione dei licenziamenti individuali anche senza giusta causa del jobs act di Renzi) o in senso parzialmente positivo (l’introduzione del Reddito di cittadinanza del governo Conte 2).
Pomini osserva che anche un altro caposaldo della politica economica di destra viene mantenuto: l’aumento del debito pubblico. È infatti statisticamente dimostrato che tutte le volte che siamo in presenza di un governo di destra o centro destra, il debito pubblico tende a crescere. Così è stato negli Usa di Reagan, così in Francia sotto Sarkozy e Macron, così in Italia sotto Berlusconi e così oggi.

 

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