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La Cassazione è intervenuta con sentenza riguardante una controversia tra vari attori e l’attuale Banca X rispetto ad alcuni rapporti intercorrenti tra le parti (rispetto a tali rapporti alcuni degli attori avevano prestato fideiussione).

Il Tribunale di Savona, chiamato a pronunciarsi, ha rigettato tutte le domande proposte dagli attori tranne una: ha, invero, accolto parzialmente la domanda relativa a un conto corrente, operata la rideterminazione del saldo concernente tale rapporto e condannato la Banca al pagamento, a favore della Società attrice, della somma di € 225.025,07 più interessi.

La società e gli altri attori fideiussori hanno proposto appello, respinto dalla Corte d’Appello di Genova, e poi ricorso per cassazione con sette motivi di impugnazione.

La banca è rimasta intimata.

 

Le prime due censure hanno riguardato l’affermazione, contenuta nella pronuncia della Corte d’Appello, secondo cui l’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado non conteneva alcuna contestazione relativa alla mancata consegna di una copia del contratto al cliente, essendo state sollevate in quella sede questioni relative alla validità di specifiche clausole contrattuali: tale evenienza implicherebbe la conoscenza, da parte della Società attrice e correntista, della relativa disciplina così presumendosi che il detto contratto fosse stato consegnato in conformità della previsione legislativa.

Il tema che ci occupa è quello dell’asserita nullità del contratto derivante dalla mancata dazione alla società attrice – e oggi ricorrente – del documento contenente le rispettive pattuizioni relative al rapporto di conto corrente. Gli istanti, infatti, hanno affermato che le impugnative di alcune clausole dimostrerebbe solo che il documento era a loro conoscenza al momento della redazione dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado e, da tale presunzione, la Corte d’Appello avrebbe fatto discendere l’ulteriore presunzione concernente la consegna del documento al momento della sua sottoscrizione (nonostante il divieto di doppia presunzione).

La Suprema Corte ha rigettato entrambe le censure, dal momento che – a detta della Corte d’Appello di Genova – la mancata consegna del documento contrattuale non era stata prospettata dagli odierni ricorrenti in primo grado e, quindi, è escluso che la domanda di nullità del contratto si fondasse su tale evenienza.

A ciò si aggiunge, secondo la Cassazione, che bisogna escludere che la mancata consegna del documento contrattuale integri una nullità e, tantomeno, una nullità che i Giudici di merito avrebbero dovuto rilevare d’ufficio.

È vero che le Sezioni Unite hanno affermato che, nel concetto di forma imposto dal legislatore, vi rientra anche la consegna del documento contrattuale (Cass. SS.UU. n. 898/18), ma l’affermazione è da intendersi nel senso che la protezione del cliente si attua, nella fase di perfezionamento del contratto, anche attraverso la consegna del relativo documento. Infatti, la norma contempla uno specifico obbligo, gravante sull’istituto di credito, complementare al vincolo di forma che è finalizzato ad agevolare l’esercizio dei diritti da parte del cliente.

Come già la Cassazione stessa ha avuto modo di ribadire in passato (seppure con riferimento alla materia della intermediazione finanziaria), la mancata consegna del contratto non pone un problema di validità della stessa e tale conclusione è da ribadire anche in tema di contratti bancari: dall’art. 117 comma 3 T.U.B. si ricava, mediante interpretazione sistematica, che la nullità del contratto presidia l’osservanza della prescrizione attinente alla modalità espressiva dell’accordo ma non anche l’obbligo di consegna dell’accordo stesso.

La consegna del documento, pertanto, non incide sulla validità del contratto e, rispetto a tale tema, deve trovare applicazione l’insegnamento secondo cui, ove non altrimenti stabilito dalla legge, solo la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non, invece, la violazione di norme, anch’esse imperative, che riguardano il comportamento dei contraenti: tale violazione può essere fonte di responsabilità.

 

Col terzo motivo di ricorso è stata opposta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 2697 c.c. il quale, come noto, impone all’attore di provare i fatti a fondamento della propria pretesa.

La Corte d’Appello, sul punto, ha ritenuto che incomba a chi agisce in giudizio per l’accertamento negativo del credito e la ripetizione dell’indebito la prova delle movimentazioni del conto. Secondo gli istanti, contrariamente a quanto sostenuto dal Giudice di secondo grado, nell’ambito delle azioni di accertamento negativo del credito bancario i principi generali sull’onere della prova troverebbero applicazione a prescindere dalla circostanza che la causa sia stata instaurata dal correntista debitore con azione di accertamento negativo, con la conseguenza che anche in tale situazione sarebbero onere della banca (convenuta in accertamento) tutte le conseguenze della mancata dimostrazione degli elementi costitutivi della pretesa.

Il Supremo Consesso ha dichiarato tale motivo inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis n.1 c.p.c. La motivazione di tale decisione, basata anche su vari precedenti identici, trova il proprio fondamento nella considerazione per cui chi allega di aver effettuato un pagamento dovuto solo in parte, proponendo l’azione di indebito oggettivo nei confronti del ricevente per la somma versata in eccedenza, ha l’onere di provare l’inesistenza di una causa giustificativa del pagamento per la parte di esso che si assume non dovuta: pertanto, in un rapporto di conto corrente bancario è il cliente che agisce in giudizio per la ripetizione dell’indebito ad essere onerato della prova dei movimenti del conto.

 

Con il quarto motivo i ricorrenti hanno prospettato una doglianza riguardante la prescrizione del diritto di ripetizione delle rimesse solutorie: la natura solutoria delle rimesse è esclusa dal fatto che esse sono eseguite per ripristinare la provvista di un’apertura di credito concessa dalla banca, quindi per ripianare una esposizione contenuta nei limiti del finanziamento accordato.

La Corte d’Appello, occupandosi della questione relativa alla esistenza di un cd. fido di fatto tra la banca e la società correntista, ha evidenziato che detta società non aveva allegato in alcun modo l’esistenza di un tale rapporto nell’atto di citazione e nella prima memoria ex art. 183 comma 6 c.p.c. e, solo nella seconda memoria ex art. 183 comma 6 c.p.c., sono state prodotte le risultanze della Centrale rischi presso la Banca d’Italia che riportavano gli affidamenti per tempo segnalati dalla Banca X. Dunque, la Corte d’Appello – riprendendo quanto affermato dal Giudice di primo grado – ha confermato che non era possibile porre a fondamento della decisione della controversia un elemento fattuale (esistenza di un fido ante 2006) non riportato da alcuna delle parti in causa.

I ricorrenti hanno censurato tale parte della sentenza di secondo grado, osservando che la propria domanda era volta all’accertamento del rapporto di dare e avere tra le parti in causa in base a un ricalcolo da effettuarsi sull’intera documentazione prodotta, la quale dava ragione del rapporto di apertura di credito e tale motivo è stato accolto dalla Corte di Cassazione.

Infatti, a fronte dell’eccezione di prescrizione del credito a decorrere dalle singole rimesse sollevata dalla Banca X contro la domanda di ripetizione dell’indebito proposta dal correntista, grava su quest’ultimo la prova della natura ripristinatoria e non solutoria delle rimesse indicate, ma il giudice è comunque chiamato a valorizzare la prova della stipula di un contratto di apertura di credito purché ritualmente acquisita. Ciò, sostiene la Suprema Corte, a prescindere da una specifica allegazione del correntista, in quanto la deduzione circa l’esistenza di un impedimento al decorso della prescrizione determinato da una apertura di credito costituisce una eccezione in senso lato. Pertanto, la Corte d’Appello non avrebbe potuto attribuire rilievo assorbente al dato della mancata allegazione del contratto di apertura di credito, dovendo piuttosto verificare se di esso fosse stata data prova, esattamente come hanno affermato i ricorrenti.

 

Con il quinto motivo d’appello, i ricorrenti hanno impugnato la sentenza di secondo grado nella parte in cui è stato dato atto della inutilità dell’ordine di esibizione essendo stata già acquisita la documentazione necessaria per la ricostruzione dei rapporti negli ultimi dieci anni. Secondo i ricorrenti, in particolare, non era vero che avevano omesso di reiterare la richiesta di esibizione dei documenti in sede di precisazione delle conclusioni.

Il motivo è stato ritenuto inammissibile per due ordini di ragioni: innanzitutto perché l’affermazione circa la rinuncia all’istanza di esibizione, introdotta dopo aver dato conto della inutilità della prova richiesta, integra una motivazione ad abundantiam che, come tale, è insuscettibile di impugnazione; inoltre i ricorrenti non si sono mostrati in grado di dar prova della concreta utilità dell’acquisizione documentale, essendo pacifico l’assunto della Corte d’Appello sulla completezza del corredo probatorio relativo all’ultimo decennio.

 

Il sesto motivo di impugnazione ha riguardato la denunzia sulla omessa pronuncia e l’insussistente o comunque apparente motivazione che, come tale, non renderebbe “percepibile il fondamento della decisione”, ma tale motivo è stato considerato assorbito in ragione dell’accoglimento del quarto motivo.

 

Con l’ultimo motivo di ricorso, infine, è stata opposta la violazione degli artt. 119 T.U.B. e 210 c.p.c. con riferimento all’art. 2697 c.c. e degli artt. 61 e 191 c.p.c., oltre che la denunzia su un error in procedendo per la motivazione assente o apparente.

Tale motivo è stato dichiarato inammissibile poiché non chiaro rispetto al preciso oggetto della censura: in altre parole, non si è ben capito a quale aspetto dell’indagine tecnica gli istanti abbiano fatto riferimento.

Considerando che il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi specifici, completi e chiari per i quali si richieda la cassazione della sentenza (il che significa individuare esattamente il capo della sentenza impugnata), la Suprema Corte non ha potuto procedere con l’analisi di tale doglianza per le ragioni già esposte.

In conclusione, la Corte di Cassazione ha accolto il quarto motivo, dichiarato assorbito il sesto, rigettato i primi due e dichiarato inammissibili i restanti. Ha, infine, cassato la sentenza impugnata rispetto al motivo accolto e rinviato la causa alla Corte d’Appello di Genova in diversa composizione anche in merito alla statuizione delle spese del giudizio di legittimità.

 

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