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Il fisco, come noto a tutti o quasi, non molla mai la presa, tanto che, nella propria definizione di reddito da lavoro dipendente, si è premurato di inserivi “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”.

Posto questo paletto, immaginiamo che un lavoratore, per sue necessità, richieda al proprio datore di lavoro il prestito di una somma di denaro, da restituire in comode rate. Oltre l’imprescindibile necessità che si tratti di un datore che può permettersi di prestare soldi, cosa non scontata con l’aria che tira, si può concedere un prestito a titolo gratuito od oneroso; in quest’ultimo caso, di regola, ad un tasso agevolato rispetto a quelli praticati sul mercato dagli intermediari finanziari.

Ed ecco che il fisco, drizzate le antenne, si è premurato di andare a definire una regola specifica di tassazione sul benefit emergente, valorizzato, detto in forma molto generica, dalla differenza tra interessi di mercato e quello praticato dal datore.

La norma, innovata di recente (D.L. 145/2023), prevede in sostanza la tassazione del 50% della differenza tra gli interessi calcolati a Tur (Tasso ufficiale di riferimento, BCE) e quelli valorizzati al tasso indicato nel prestito concesso. La ratio è la seguente: hai un vantaggio economico perché paghi meno interessi rispetto ad un parametro individuato nel Tur? Bene, allora il 50% di tale benefit sarà da assoggettare a tassazione.

La novità di tale marchingegno sta nel fatto, detto in sintesi, che il riferimento al Tur, che in precedenza avveniva sul suo valore “vigente al termine di ciascun anno”, va adesso distinto a seconda che gli interessi applicati sul prestito concesso siano a tasso fisso o variabile:

  • se a tasso fisso, sarà da considerare il Tur vigente “alla data di concessione del prestito”;
  • se a tasso variabile, sarà invece da considerare il Tur vigente “alla data di scadenza di ciascuna rata”.

Attenzione sempre, in tali casi, alla soglia di non imponibilità, per il 2024 posta ad € 1.000 o € 2.000.

Si noti, sul piano operativo, che in sede di tassazione il sostituto d’imposta dovrà regolarsi come segue: applicare la ritenuta nel periodo di paga in cui viene superata la predetta soglia di non imponibilità; se, tuttavia, risulta chiaro che il valore, tenuto conto dell’intero periodo d’imposta, sarà complessivamente superiore all’importo soglia, deve effettuare la ritenuta fin dal primo periodo di paga.

Una specifica in relazione al caso del tasso fisso sul prestito, quello che, personalmente, ho visto praticare con più frequenza. Abbiamo detto che il riferimento al Tur va al suo valore “alla data di concessione del prestito”; occhio, quindi, perché andremo (si spera) in tempi di variazione al ribasso, ma il parametro riferimento resterà fermo alla data di concessione. Ciò a meno che non si vada a rinegoziare il tutto; in tale situazione, infatti, l’AdE ha specificato (Circ. n. 5/2024) che il riferimento sarà al Tur valevole alla data di rinegoziazione.

Queste regole valgono anche per altre casistiche, che vedono il datore agire come “intermediario” presso un istituto di credito per far ottenere il prestito al dipendente; l’ormai datata ma intramontabile Circ. 326/97, infatti, riferisce che le regole tributarie in esame valgono anche per i “finanziamenti concessi da terzi con i quali il datore di lavoro abbia stipulato accordi o convenzioni, anche in assenza di oneri specifici da parte di quest’ultimo”.

Stessa sorte anche per un caso particolare, dove il prestito viene erogato da un istituto di credito, convenzionato col datore di lavoro, mentre quest’ultimo provvede a rimborsare al lavoratore, con versamento sul conto corrente a questi intestato, una quota di interessi passivi. L’Ade, bontà sua, ha di fatto accettato anche questa soluzione creativa (Ris. n. 46/2010), andando porre, tuttavia, una serie di paletti burocratici ineludibili. Pensavate forse di cavarvela a buon mercato?

Stante il dettato normativo, si deve indicare anche il singolare caso di prestito cointestato, tra lavoratore ed un familiare, ovvero tra lavoratore ed un soggetto terzo (magari semplice convivente). Secondo l’AdE “anche nel caso in cui il mutuo (o il finanziamento) sia intestato ad un familiare o cointestato con un familiare (ad esempio il coniuge) il calcolo deve essere effettuato sulla base dell’intera ‘quota interessi’. Diversamente, qualora il mutuo sia cointestato con un soggetto diverso da quelli espressamente indicati nel citato articolo 12 del Tuir, il calcolo deve esser effettuato sulla base della sola ‘quota interessi’ imputabile al dipendente che ha sottoscritto il finanziamento” (Ris. n. 44/2023). Un caso in cui l’essere coniugati non da vantaggio.

 

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