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INVIATO A TRIESTE. Francesco arriva a Trieste per concludere la «Settimana Sociale dei Cattolici in Italia» e lancia un monito senza confini: «La democrazia non è in buona salute», bisogna «allenare la partecipazione contro le tentazioni populistiche». La crisi «è trasversale a diverse Nazioni». Occorre «“organizzare la speranza”: la pace e i progetti di buona politica possono rinascere dal basso”, rilanciando «gli sforzi per una formazione sociale che parta dai giovani». Bergoglio cita Umberto Saba che parla dei “detriti” dell’umanità, e si chiede perché non ci si scandalizza delle sofferenze.

Questa mattina, lasciata Casa Santa Marta, il Papa si è trasferito all’eliporto del Vaticano da dove, alle 6,30, è partito per la visita pastorale nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia in occasione della 50esima edizione della kermesse, in corso dal 3 al 7 luglio sul tema «Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro». Al suo arrivo, alle 7,54, dopo l’atterraggio al Centro Congressi Generali Convention Center, il Pontefice viene accolto cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) e arcivescovo di Bologna, da monsignor Luigi Renna, arcivescovo di Catania e presidente del comitato organizzatore delle Settimane sociali, da monsignor Enrico Trevisi, vescovo di Trieste, da Massimiliano Fedriga, presidente della Regione, da Pietro Signoriello, prefetto di Trieste, dal sindaco Roberto Dipiazza, e da Philippe Donnet, amministratore delegato di «Generali».

Francesco è salutato con una vera ovazione al suo ingresso nel Centro Congressi, dove incontra i congressisti: la folla di delegati e personalità è in piedi ad applaudire e a urlare di gioia. Il Pontefice è accompagnato in sedia a rotelle fin dietro le quinte, poi si alza in piedi e, appoggiandosi a un bastone, raggiunge la postazione per gli interventi.

Il Vescovo di Roma pronuncia il suo discorso, introducendolo con un aneddoto personale: «La prima volta che ho sentito parlare di Trieste è stato da mio nonno che aveva fatto il ’14 sul Piave. E lui ci insegnava tante canzoni e una era su Trieste: “Il general Cadorna scrisse alla Regina, se vuoi guardare Trieste che la guardi in cartolina”. Cari fratelli Vescovi, illustri Autorità, fratelli e sorelle, buongiorno! Ringrazio il Cardinale Zuppi e Monsignor Baturi per avermi invitato a condividere con voi questa sessione conclusiva. Saluto Monsignor Renna e il Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali. A nome di tutti esprimo gratitudine a Monsignor Trevisi per l’accoglienza della Diocesi di Trieste. Questa è stata la 50.ma Settimana Sociale». La storia «delle “Settimane” si intreccia con la storia dell’Italia, e questo dice già molto: dice di una Chiesa sensibile alle trasformazioni della società e protesa a contribuire al bene comune. Forti di questa esperienza, avete voluto approfondire un tema di grande attualità».

Il beato Giuseppe Toniolo, «che ha dato avvio a questa iniziativa nel 1907, affermava che la democrazia si può definire “quell’ordinamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano proporzionalmente al bene
comune, rifluendo nell’ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori”». Alla luce di «questa definizione, è evidente che nel mondo di oggi la democrazia non gode di buona salute. Questo ci interessa e ci preoccupa, perché è in gioco il bene dell’uomo, e niente di ciò che è umano può esserci estraneo».

In Italia «è maturato l’ordinamento democratico dopo la seconda guerra mondiale, grazie anche al contributo determinante dei cattolici. Si può essere fieri di questa storia, sulla quale ha inciso pure l’esperienza delle Settimane Sociali; e, senza mitizzare il passato, bisogna trarne insegnamento per assumere la responsabilità di costruire qualcosa di buono nel nostro tempo. Questo atteggiamento si ritrova nella Nota pastorale con cui nel 1988 l’Episcopato italiano ha ripristinato le Settimane Sociali. Cito le finalità: “Dare senso all’impegno di tutti per la trasformazione della società; dare attenzione alla gente che resta fuori o ai margini dei processi e dei meccanismi economici vincenti; dare spazio alla solidarietà sociale in tutte le sue forme; dare sostegno al ritorno di un’etica sollecita del bene comune […]; dare significato allo sviluppo del Paese, inteso […] come globale miglioramento della qualità della vita, della convivenza collettiva, della partecipazione democratica, dell’autentica libertà”».

Tale visione, radicata nella «Dottrina Sociale della Chiesa, abbraccia alcune dimensioni dell’impegno cristiano e una lettura evangelica dei fenomeni sociali che non valgono soltanto per il contesto italiano, ma rappresentano un monito per l’intera società umana e per il cammino di tutti i popoli. Infatti, così come la crisi della democrazia è trasversale a diverse realtà e Nazioni, allo stesso modo l’atteggiamento della responsabilità nei confronti delle trasformazioni sociali è una chiamata rivolta a tutti i cristiani, ovunque essi si trovino a vivere e a operare, in ogni parte del mondo».

C’è un’immagine che riassume «tutto ciò e che voi avete scelto come simbolo di questo appuntamento: il cuore». A partire da «questa immagine, vi propongo due riflessioni per alimentare il percorso futuro».

Nella prima «possiamo immaginare la crisi della democrazia come un cuore ferito. Ciò che limita la partecipazione è sotto i nostri occhi. Se la corruzione e l’illegalità mostrano un cuore “infartuato”, devono preoccupare anche le diverse forme di esclusione sociale». Ogni volta che qualcuno è emarginato, «tutto il corpo sociale soffre. La cultura dello scarto disegna una città dove non c’è posto per i poveri, i nascituri, le persone fragili, i malati, i bambini, le donne, i giovani». Il potere diventa «autoreferenziale, incapace di ascolto e di servizio alle persone». Papa Francesco cita Aldo Moro: «Ricordava che “uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità”».

La parola stessa «“democrazia” non coincide semplicemente con il voto del popolo, ma esige che si creino le condizioni perché tutti si possano esprimere e possano partecipare. E la partecipazione non si improvvisa: si impara da ragazzi, da giovani, e va “allenata”, anche al senso critico rispetto alle tentazioni ideologiche e populistiche». In questa prospettiva, «come ho avuto modo di ricordare anni fa visitando il Parlamento Europeo e il Consiglio d’Europa, è importante far emergere “l’apporto che il cristianesimo può fornire oggi allo sviluppo culturale e sociale europeo nell’ambito di una corretta relazione fra religione e società”, promuovendo un dialogo fecondo con la comunità civile e con le istituzioni politiche perché, illuminandoci a vicenda e liberandoci dalle scorie dell’ideologia, possiamo avviare una riflessione comune in special modo sui temi legati alla vita umana e alla dignità della persona. A tale scopo rimangono fecondi i principi di solidarietà e di sussidiarietà. Infatti un popolo si tiene insieme per i legami che lo costituiscono, e i legami si rafforzano quando ciascuno è valorizzato. La democrazia richiede sempre il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal “fare il tifo” al dialogare».

Il Pontefice cita l’enciclica «Fratelli tutti»: finché «il nostro sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, non ci potrà essere la festa della fraternità universale. Una società umana e fraterna è in grado di adoperarsi per assicurare in modo efficiente e stabile che tutti siano accompagnati nel percorso della loro vita, non solo per provvedere ai bisogni primari, ma perché possano dare il meglio di sé, anche se il loro rendimento non sarà il migliore, anche se andranno lentamente, anche se la loro efficienza sarà poco rilevante».
Secondo Bergoglio, «tutti devono sentirsi parte di un progetto di comunità; nessuno deve sentirsi inutile. Certe forme di assistenzialismo che non riconoscono la dignità delle persone sono ipocrisia sociale. E l’indifferenza è un cancro della democrazia».

La seconda riflessione è un incoraggiamento a «partecipare, affinché la democrazia assomigli a un cuore risanato. E per questo occorre esercitare la creatività. Se ci guardiamo attorno, vediamo tanti segni dell’azione dello Spirito Santo nella vita delle famiglie e delle comunità. Persino nei campi dell’economia, della tecnologia, della politica, della società». Il Vescovo di Roma pensa «a chi ha fatto spazio all’interno di un’attività economica a persone con disabilità; ai lavoratori che hanno rinunciato a un loro diritto per impedire il licenziamento di altri; alle comunità energetiche rinnovabili che promuovono l’ecologia integrale, facendosi carico anche delle famiglie in povertà energetica; agli amministratori che favoriscono la natalità, il lavoro, la scuola, i servizi educativi, le case accessibili, la mobilità per tutti, l’integrazione dei migranti».

La fraternità «fa fiorire i rapporti sociali; e d’altra parte il prendersi cura gli uni degli altri richiede il coraggio di pensarsi come popolo. Purtroppo questa categoria – “popolo” – spesso è male interpretata e, “potrebbe portare a eliminare la parola stessa ‘democrazia’ (‘governo del popolo’). Ciò nonostante, per affermare che la società è più della mera somma degli individui, è necessario il termine ‘popolo’”. In effetti, “è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo”. Una democrazia dal cuore risanato continua a coltivare sogni per il futuro, mette in gioco, chiama al coinvolgimento personale e comunitario».

Mette in guardia ed esorta il Pontefice: «Non lasciamoci ingannare dalle soluzioni facili. Appassioniamoci invece al bene comune. Ci spetta il compito di non manipolare la parola democrazia né di deformarla con titoli vuoti di contenuto, capaci di giustificare qualsiasi azione. La democrazia non è una scatola vuota, ma è legata ai valori della persona, della fraternità e dell’ecologia integrale».

Come cattolici, in questo orizzonte, «non possiamo accontentarci di una fede marginale, o privata. Ciò significa non tanto pretendere di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Abbiamo qualcosa da dire, ma non per difendere privilegi. Dobbiamo essere voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce. Questo è l’amore politico, che non si accontenta di curare gli effetti ma cerca di affrontare le cause». È una forma di «carità che permette alla politica di essere all’altezza delle sue responsabilità e di uscire dalle polarizzazioni, che immiseriscono e non aiutano a capire e affrontare le sfide. A questa carità politica è chiamata tutta la comunità cristiana, nella distinzione dei ministeri e dei carismi. Formiamoci a questo amore, per metterlo in circolo in un mondo che è a corto di passione civile. Impariamo sempre più e meglio a camminare insieme come popolo di Dio, per essere lievito di partecipazione in mezzo al popolo di cui facciamo parte». Giorgio La Pira «aveva pensato al protagonismo delle città, che non hanno il potere di fare le guerre ma che ad esse pagano il prezzo più alto. Così immaginava un sistema di “ponti” tra le città del mondo per creare occasioni di unità e di dialogo. Sull’esempio di La Pira, non manchi al laicato cattolico italiano questa capacità “organizzare la speranza”: la pace e i progetti di buona politica possono rinascere dal basso. Perché non rilanciare, sostenere e moltiplicare gli sforzi per una formazione sociale e politica che parta dai giovani? Perché non condividere la ricchezza dell’insegnamento sociale della Chiesa? Possiamo prevedere luoghi di confronto e di dialogo e favorire sinergie per il bene comune». Se il processo sinodale «ci ha allenati al discernimento comunitario, l’orizzonte del Giubileo ci veda attivi, pellegrini di speranza, per l’Italia di domani. Da discepoli del Risorto, non smettiamo mai di alimentare la fiducia, certi che il tempo è superiore allo spazio e che avviare processi è più saggio di occupare spazi. Questo è il ruolo della Chiesa: coinvolgere nella speranza, perché senza di essa si amministra il presente ma non si costruisce il futuro. Fratelli e sorelle, vi ringrazio per il vostro impegno. Vi benedico e vi auguro di essere artigiani di democrazia e testimoni contagiosi di partecipazione. E vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie».

Zuppi, nel suo indirizzo di saluto, Zuppi ha affermato: «I cattolici in Italia non sono e non vogliono essere una lobby in difesa di interessi particolari e non diventeranno mai di parte, perché l’unica parte che amano e indicano liberamente a tutti è quella della persona, ogni persona, qualunque, dall’inizio alla fine naturale della vita. Senza passaporto, qualunque. E non un amore qualsiasi, ma quello che ci insegna Gesù». Per il porporato ogni «strumento è importante, ma nell’orchestra tutti hanno bisogno di accordarsi agli altri». Il capo dei vescovi evidenzia che «siamo venuti qui pieni di voglia, carichi di esperienze sociali, di realtà, non di studi o laboratori. Le debbo dire: dopo questi giorni la voglia è aumentata, voglia di partecipazione, voglia di rendere migliore questo mondo, di aiutare la democrazia viva del nostro Paese e dell’Europa, non quella del benessere individuale, ma quella del bene comune, che è stare bene tutti». Alle sfide «vogliamo rispondere da cristiani. Vogliamo dare frutti di democrazia, cioè di uguaglianza, di diritti e doveri per tutti. Al cuore della democrazia ci sono le persone e c’è un atteggiamento di fiducia e speranza». Si domanda il Cardinale: «Come fa un cristiano a non essere sociale? Sarebbe un po’ asociale e questo non funziona», dice scherzando sul fatto che può essere sociale «anche un orso come me». Parlando al Papa aggiunge: «E Lei è un po’ il primo poeta sociale. E grazie, Padre Santo, perché non si stanca di cercare la pace e ricorda a tutti di essere artigiani di pace». Zuppi fa poi riferimento a un cartello che è fuori della porta dell’appartamento del Papa a Casa Santa Marta in cui c’è scritto «”Vietato lamentarsi”. In questi giorni nessun vittimismo, qui qualcuno l’ha messo» quel cartello, «nessun lamento, tanta gioia e tanti problemi affrontati e da amare».

Al termine del discorso il Pontefice scende dal palco per raggiungere un’altra sala del Generali Convention Center dove incontra, in tre momenti diversi, i rappresentanti delle 16 confessioni che convivono a Trieste, il rettore dell’Università, Roberto Di Lenarda, insieme con studenti e alcuni docenti, e infine, in una sala più grande, un centinaio di disabili, migranti e persone in difficoltà.

«Continuate a crescere, a perseguire queste politiche questi comportamenti di pace». Sono le parole rivolte da Francesco alla rappresentanza universitaria di Trieste. Lo comunica lo stesso Di Lenarda al termine dell’incontro privato con il Pontefice: «Poi ha stretto la mano a tutti, a dimostrare la sua vicinanza. È stato un incontro molto toccante. Il Santo Padre ha apprezzato la presenza di tanti giovani e, anche con il vescovo di Trieste, monsignor Trevisi, si è sottolineato come questo sia il futuro della democrazia, della nostra società, in una terra di confine che ha saputo costruire più ponti che steccati».

In un corteo scortato da motociclisti e mezzi della Polizia, Bergoglio parte alla volta di piazza Unità d’Italia, dove celebrerà Messa e reciterà l’Angelus.

Giunge intorno alle 9,40. Sale a bordo di un biposto aperto bianco con i simboli del Vaticano e, mentre la folla canta «Emmanuel», passando a velocità bassissima, stringe mani e saluta la gente in attesa. Infine, arriva al gigantesco palco montato in piazza dove al centro c’è un altare con una grande Croce. Tante le associazioni e i fedeli presenti con striscioni festanti.

Prima della Funzione, il Papa ha incontrato la signora Maria, di 111 anni, residente a Trieste, con cui ha scambiato un breve saluto. Il Pontefice le ha donato un rosario e l’ha benedetta. Lo riferisce la Sala stampa della Santa Sede.

Alla Messa partecipano non solo fedeli della città ma da tutto il Friuli Venezia Giulia, da Austria, Croazia, Slovenia, Inghilterra, Australia, Germania, Argentina, Colombia, Venezuela, Ucraina, Bielorussia, Perù, Nigeria, Camerun, tra le nazionalità presenti a Piazza Unità d’Italia. Tra i presuli alcuni sono arrivati anche dalla Croazia, dalla Slovenia e dall’Austria. Ci sono circa 8.500 fedeli. Concelebrano 98 vescovi e 260 sacerdoti. Sono inoltre presenti vescovi e pastori delle Chiese serbo ortodossa, greco ortodossa e luterana.

Francesco fa fatica a leggere l’omelia: «Mi scuso di leggere così ma il sole mi muove tutto». Mentre parlava si sente in sottofondo anche il suono di campane. Francesco va comunque avanti fino alla fine, interrotto talvolta degli applausi dei fedeli, soprattutto quando parlato della necessità dell’accoglienza e dell’attenzione agli ultimi della città.

Scandisce: «Abbiamo bisogno dello scandalo della fede, non abbiamo bisogno di una religiosità chiusa in se stessa, che alza lo sguardo fino al cielo senza preoccuparsi di quanto succede sulla terra e celebra liturgie nel tempio dimenticandosi però della polvere che scorre sulle nostre strade. Ci serve, invece, lo scandalo della fede, una fede radicata nel Dio che si è fatto uomo e, perciò, una fede umana, una fede di carne, che entra nella storia, che accarezza la vita della gente, che risana i cuori spezzati, che diventa lievito di speranza e germe di un mondo nuovo. È una fede che sveglia le coscienze dal torpore, che mette il dito nelle piaghe della società, ce ne sono tante». È un credo «che suscita domande sul futuro dell’uomo e della storia; è una fede inquieta, e noi abbiamo bisogno di vivere una fede inquieta».

La società è «spesso anestetizzata e stordita dal consumismo, quell’ansia di avere cose, di averne di più, di avere soldi. Il consumismo è una piaga, un cancro che ti ammala il cuore, ti fa egoista, ti fa guardare solo a te stesso».

Il Pontefice parla degli ultimi e cita Umberto Saba, «un poeta di questa città» che «descrivendo in una lirica il suo abituale ritorno a casa di sera, afferma di attraversare una via un po’ oscura, un luogo di degrado dove gli uomini e le merci del porto sono “detriti”, cioè scarti dell’umanità». Dio «si nasconde negli angoli scuri della vita e delle nostre città, la sua presenza si svela proprio nei volti scavati dalla sofferenza e laddove sembra trionfare il degrado. L’infinito di Dio si cela nella miseria umana. E noi, che talvolta ci scandalizziamo inutilmente di tante piccole cose, faremmo bene invece a chiederci: perché dinanzi al male che dilaga, alla vita che viene umiliata, alle problematiche del lavoro, alle sofferenze dei migranti, non ci scandalizziamo? Perché restiamo apatici e indifferenti dinanzi alle ingiustizie del mondo? Perché non prendiamo a cuore la situazione dei carcerati, che anche da questa città di Trieste si leva come un grido di angoscia? Perché non contempliamo le miserie, il dolore, lo scarto di tanta gente nella città? Abbiamo paura di trovare Cristo lì».

Dalla città di Trieste, «affacciata sull’Europa, crocevia di popoli e culture, terra di frontiera, alimentiamo il sogno di una nuova civiltà fondata sulla pace e sulla fraternità. Per favore non scandalizziamoci di Gesù ma, al contrario, indigniamoci per tutte quelle situazioni in cui la vita viene abbruttita, ferita e uccisa; portiamo la profezia del Vangelo nella nostra carne, con le nostre scelte prima ancora che con le parole, quella coerenza tra la scelta e le parole. E a questa Chiesa triestina vorrei dire: avanti avanti! Continuate a impegnarvi in prima linea per diffondere il Vangelo della speranza, specialmente verso coloro che arrivano dalla rotta balcanica e verso tutti coloro che, nel corpo o nello spirito, hanno bisogno di essere incoraggiati e consolati. Impegniamoci insieme: perché riscoprendoci amati dal Padre possiamo vivere come fratelli tutti».

Come cristiani «abbiamo il Vangelo, che dà senso e speranza alla nostra vita; e come cittadini avete la Costituzione, “bussola” affidabile per il cammino della democrazia. E allora, avanti! Senza paura, aperti e saldi nei valori umani e cristiani, accoglienti ma senza compromessi sulla dignità umana. Su questo non si gioca».

Poi, all’Angelus chiede di rinnovare «il nostro impegno a pregare e operare per la pace: per la martoriata Ucraina, per la Palestina e Israele, per il Sudan, il Myanmar e ogni popolo che soffre per la guerra».

Trieste è «una porta aperta ai migranti» e «a tutti coloro che fanno più fatica. Trieste è una di quelle città che hanno la vocazione di far incontrare genti diverse: anzitutto perché è un porto, e un porto importante, e poi perché si trova all’incrocio tra l’Italia, l’Europa centrale e i Balcani. In queste situazioni, la sfida per la comunità ecclesiale e per quella civile è di saper coniugare l’apertura e la stabilità, l’accoglienza e l’identità. E allora mi viene da dire: avete le “carte in regola”, grazie. Avete le carte in regola per affrontare questa sfida!».

Infine, siparietto del Papa per lodare scherzosamente il vescovo di Trieste Trevisi che, invocando la benedizione del Pontefice su tanti malati, migranti, anziani e altri, li aveva chiamati per nome. Terminato l’intervento del Pastore, Francesco prende la parola e, segnalando che Trevisi non ha genericamente indicato i malati oppure gli anziani, ma li ha chiamati per nome a dimostrazione che «la carità è concreta, l’amore è concreto», raccontato la storia di un parroco che aveva in cura le anime di tre villaggi: «Gli chiesi: “Conosci i nomi di queste persone?” Lui rispose: “Non solo conosco i loro nomi ma conosco i nomi di tutti i cani delle famiglie”. Dunque io mi auguro che Trevisi continui e vada avanti a conoscere anche i cani» di Trieste. Ogni persona «sana o malata – aggiunge – ha una dignità e la si fa vedere con il nome e Trevisi la conosce. Molto bello».

Intorno alle 11,30 papa Francesco lascia piazza Unità d’Italia per andare verso l’elicottero che lo riporterà a Roma. Ripartito da Trieste alle 12,16 dal Molo Audace, davanti a piazza Unità d’Italia.

 

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