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Uno sconto fiscale per quelle aziende che accrescono il proprio organico assumendo nuovi lavoratori a tempo indeterminato è diventato operativo in queste ore. Sarà utilizzabile per le assunzioni stabili effettuate dal 1° gennaio scorso e in vigore per l’anno d’imposta 2024. Con il «Superbonus lavoro», come lo ha ribattezzato qualcuno, le aziende che assumono «in più» rispetto all’anno prima potranno beneficiare di una maggiorazione pari al 120% del costo del lavoro ammesso in deduzione, e fino al 130% se i neoassunti appartengono a categorie specifiche come le persone con disabilità o le donne con almeno due figli minorenni.

Proprio l’uso dell’espressione «Superbonus», associata a percentuali di sconto in apparenza così importanti, potrebbe far suonare un campanello d’allarme tra i lettori più attenti. D’altronde è stato un altro «Superbonus», quello edilizio, che nella sua versione originaria del 2020 introduceva una detrazione del 110% delle spese per interventi di efficientamento energetico sugli immobili (con possibilità di sconto in fattura e cessione del credito), ad assestare un duro colpo alla sostenibilità delle nostre finanze pubbliche. In quel caso si trattò però di un meccanismo ben più dirompente dal punto di vista dei costi, in grado di addossare decine di miliardi di deficit pubblico aggiuntivo a un Paese come il nostro già fortemente indebitato. Stavolta per la maxideduzione si prevede un finanziamento complessivo, quest’anno, di 1,3 miliardi di euro, decisamente più contenuto quindi. Soprattutto, è diversa la filosofia di fondo che ispira i due «bonus». Nel 2020 l’obiettivo fu quello di trasmettere uno shock positivo a un’economia immobilizzata dalla pandemia e dai conseguenti lockdown, concentrando le risorse (ma non i controlli) su un solo settore produttivo, cioè l’edilizia, e senza ipotizzare alcun criterio selettivo per quel che riguarda i potenziali beneficiari (il che ha generato per esempio effetti distorsivi a favore dei più ricchi). Stavolta, invece, per l’attuale Governo la finalità del nuovo bonus lavoro è quella di favorire l’occupazione stabile, e per questa ragione non si è previsto di aiutare uno specifico settore produttivo, offrendo piuttosto una possibilità a tutte le aziende – esclusi imprenditori agricoli e coloro che svolgono attività commerciali in via occasionale – che puntano ad assumere di più. Si tratta in definitiva di uno sconto fiscale concentrato sul lavoro, in linea con altre misure varate da questo Governo, come il taglio del cuneo fiscale per i redditi più bassi, e con provvedimenti più minuti come gli sgravi per le assunzioni di giovani o la «decontribuzione Sud», e per questa ragione anche socialmente più sostenibile.

Insomma non tutti i «bonus», per quanto strutturalmente effimeri, si equivalgono. Detto ciò, con altrettanta chiarezza, occorre ammettere che nessun bonus o sommatoria di bonus potrà consentire al nostro Paese di vincere la principale sfida con cui si confronta oggi il mondo del lavoro, quella della produttività e degli stipendi stagnanti. L’ultimo arrivato tra i bonus, per esempio, in alcuni casi potrebbe alleviare il carico fiscale su imprese che – visto l’attuale buono stato di salute dell’occupazione – avrebbero comunque assunto nuovi dipendenti, comportando così un costo aggiuntivo per lo Stato senza implicare una spinta virtuosa alla crescita. La storia insegna: la produttività del lavoro in Italia iniziò a declinare negli anni ’90 del secolo scorso, quando troppe imprese non seppero adeguarsi al cambio di paradigma del digitale e dell’Ict. Oggi, di fronte a nuove macro-tendenze come la ristrutturazione delle catene globali del valore o la rivoluzione dell’intelligenza artificiale, non ci salverà un bonus pur decentemente congegnato.

 

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