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Una volta il prezzo dell’oro era legato al rendimento dei Treasury bond americani e quindi alle aspettative sull’inflazione e sui tassi d’interesse statunitensi. Esso si spostava abitualmente nella direzione opposta a quella dei rendimenti dei titoli del Tesoro a dieci anni. Nella mattina di lunedì 24 giugno il metallo giallo scambia in lieve rialzo intorno a 2.338 dollari l’oncia.  Questa volta invece, ha seguito la tendenza rialzista dei tassi. Il suo valore è salito, secondo l’ultimo rapporto del World Gold Council, a causa del livello di domanda record da parte delle banche centrali di Cina, India, Turchia e Paesi emergenti. La sola banca centrale cinese avrebbe acquistato oro per 18 mesi consecutivi dal novembre 2022, incrementando le proprie riserve auree (valutate in 3.400 miliardi di dollari) del 16%, per un valore di 561 miliardi di dollari.

Oro, un bene prezioso in caso di sanzioni

Ma la domanda d’oro non avrebbe a che fare con il processo di de-dollarizzazione, bensì con la necessità da parte dei Paesi non allineati di diversificare le riserve con un bene non sequestrabile. Il congelamento delle riserve di valuta estera della Banca centrale russa avvenuto nel 2022 avrebbe spinto le banche centrali di Paesi non occidentali verso l’acquisto di oro. Secondo i dati riportati dal Wall Street Journal, a partire dal terzo trimestre 2022, ad esclusione della Cina, prima acquirente, i soli Paesi emergenti avrebbero aggiunto 2.200 tonnellate di metallo prezioso alle proprie riserve per un valore di 170 miliardi di dollari, pari a un quinto della domanda globale e al doppio della percentuale registrata tra il 2012 e il 2021.

La correlazione oro-sanzioni è provata storicamente da un interessante paper del Fondo Monetario Internazionale: «L’oro come riserva internazionale può ancora essere definita una reliquia barbara?» di Serkan Arslanalp, Barry Eichengreen e Chima Simpson-Bell, uscito nel gennaio 2023. Storicamente, sostengono gli autori, l’accumulo di oro da parte delle banche centrali è strettamente legato al timore delle sanzioni finanziarie e commerciali occidentali (Serbia 2002, Bielorussia 2006, Iraq 2012, Egitto 2017, Turchia 2018).

Riserve mondiali in calo

Inoltre, è erroneo pensare che le riserve d’oro delle banche centrali siano ai massimi di sempre. Nel 1950, nelle economie avanzate, l’oro rappresentava in media l’80% delle riserve, oggi siamo intorno al 17%. Alcuni Paesi ne detengono di più (il 60%) come l’Italia, la Germania e gli Stati Uniti, e altri meno (tra il 4 e il 9%), come la Cina, l’India, il Regno Unito, la Svizzera e il Giappone. È interessante notare come la Svizzera dal 1999 al 2021 abbia venduto il 34% delle proprie riserve valutate in oro, ma sia rimasta il maggior centro al mondo di raffinamento e trasformazione del metallo prezioso. La Cina è passata dal 3% del 2022 al 5% del 2023, comunque sotto i livelli registrati storicamente, nel periodo 1950-1990. E per di più il mercato dell’oro è divenuto ancora più fluido con la nascita, oltre alle già note borse di Londra, New York e Tokyo, del Shanghai Gold Exchange, del Multi Commodity Exchange of India e del Singapore Precious Metals Exchange.

Ma l’oro russo è riuscito a trovare una via di sbocco, malgrado le sanzioni. Mosca è stata declassata dal London Bullion Market, che è ancora il principale mercato globale over the counter che fissa il benchmark price dell’oro in dollari per oncia troy, ed è stata anche espulsa dalla London Bullion Market Association che le forniva lo standard di qualità «good delivery». Ma ha trovato un intermediario negli Emirati Arabi Uniti, grazie al quale è riuscita a vendere il suo oro non certificato. La Svizzera ha importato nel 2023 da Dubai oro russo per un valore di 8 miliardi di dollari.

De-dollarizzazione in corso?

La de-dollarizzazione (parziale) in corso sarebbe invece dettata non dall’acquisto di oro, ma dalla sostenibilità del debito americano a lungo termine (35000 miliardi di dollari), e dal recente aumento dei tassi Fed, che ha reso il dollaro troppo apprezzato per molti Paesi emergenti. Sempre secondo il Fmi, la percentuale di dollari nelle riserve mondiali è passata in vent’anni dal 70 al 55%, ma sono aumentati gli acquisti da parte di molte banche centrali di valute non tradizionali, tra cui il dollaro australiano, il dollaro canadese, il dollaro di Singapore, il renmimbi cinese e il won sudcoreano.

Alcuni Paesi sudamericani come Brasile, Argentina e Bolivia hanno iniziato a pagare le importazioni in yuan. I raffinatori indiani hanno iniziato a pagare in rupie il petrolio russo acquistato tramite i commercianti di Dubai. La valuta cinese ha poi recentemente soppiantato il dollaro come valuta più scambiata in Russia, pari al 42% di tutta la valuta estera scambiata alla Borsa di Mosca. Nel settembre 2022 la compagnia petrolifera statale russa Rosneft avrebbe emesso obbligazioni per 10 miliardi di yuan, seguita da una seconda tranche di 15 miliardi nel marzo 2023 e l’Arabia Saudita avrebbe accettato il pagamento in altre valute, per la vendita del suo petrolio.

Ma siamo ben lontani da una detronizzazione del dollaro, secondo Jared Cohen, presidente del Goldman Sachs Global Institute, il quale sostiene in un recente articolo apparso su Foreign Policy «Don’t Bet Against the Dollar», che il biglietto verde regni ancora incontrastato nel commercio globale, con una quota del 88% nelle transazioni in valuta. Il sistema mondiale di finanziamento, assicurazione e trasporto del petrolio rimane quasi interamente basato sul dollaro.

Il sistema di pagamento interbancario transfrontaliero (Cross-Border Interbank Payment System, CIPS) ideato dalla Cina come alternativa allo SWIFT, gestisce 25.900 transazioni giornaliere, contro le 500 mila gestite dalla società con sede in Belgio per un valore complessivo di 1.800 miliardi di dollari. E la quota di renmimbi negli scambi commerciali internazionali non supera l’8%, a causa del suo lento processo di internazionalizzazione. (riproduzione riservata)

 

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