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Cagliari Le epidemie, e le pandemie, antiche e moderne non sono certo malattie “democratiche”. Non colpiscono indistintamente, ma si accaniscono sulle aree più deboli e più povere, colpiscono di più le persone ai margini, alimentano e allo stesso tempo sono l’effetto di deprivazione, arretratezza, ignoranza. Raccontarne la storia è anche un modo per non compiere errori nel futuro quando qualcos’altro, adesso sconosciuto e indefinito, arriverà. La Sardegna, la sua storia passata (malaria) e recente (peste suina) hanno rappresentato il cuore del secondo workshop “Antonio Pigliaru” promosso dall’università di Cagliari, dal Crenos con il contributo della Fondazione di Sardegna. Sette intense ore di relazioni, interventi, domande, e qualche polemica sull’impatto della malaria e sui suoi effetti anche adesso. Se si volesse giustificare il perché del convegno basterebbe esprimere un semplice concetto: tutti i sardi sono figli diretti o indiretti della malaria, tutti coloro che vi vivevano prima della sua eradicazione hanno pagato le conseguenze di quel flagello. Anche chi è arrivato dopo il 1950, anno ufficiale di sconfitta del morbo, ha avuto a che fare con la malaria, dal punto di vista genetico, umano, sociale e persino economico. Lo stesso sviluppo dell’isola, pur con le conosciute carenze e difficoltà ha cambiato rotta solo dopo la sconfitta ad opera del DDT del vettore della malaria.

Marcus Hall, docente nel dipartimento di biologia evolutiva e ambientale all’Università di Zurigo ha posto l’accento sul carattere sperimentale di quello che è conosciuto come “Sardinian Project”, il lavoro di eradicazione quasi assoluto messo in campo dall’Erlaas, l’ente regionale per la lotta antianofelica con il contributo finanziario della Fondazione Rockefeller che dal 1946 al 1950 irrorò con tonnellate di DDT ogni angolo della Sardegna. «Quell’intervento fu prima un esperimento e solo dopo un intervento di salute pubblica, tipico metodo della Fondazione che sceglieva luoghi isolati per verificare processi da applicare poi su larga scala. La Sardegna del secondo dopoguerra era una location ideale: isolata, con zanzare indigene, perfetta per una pubblicità a tappeto che lodava il DDT. Oggi sappiamo che ci sono tanti rimedi naturali per limitare la malattia, ma eradicare, come avvenuto qui non significa sconfiggere la malaria, ma impedire che le zanzare la trasmettano all’uomo».

Dal passato al presente con Bruno Moonen, direttore del progetto malaria della Bill&Melinda Gates Foundation. Oggi solo 45 paesi al mondo sono liberi dalla malaria. L’esempio sardo non fa parte dei metodi usati, che oggi sono più flessibili, a stretto contatto con le popolazioni locali, applicati su scala subnazionale e chiaramente usano le nuove tecnologie, a cominciare dagli smartphone. Ma senza risorse, con l’obiettivo di avvicinarsi sempre più all’eradicazione quasi totale, il progetto va a fondo e quello che abbiamo realizzato in questi anni può scomparire in un attimo».

La malaria non è una malattia del passato: ogni anno oltre 600mila persone ne muoiono e milioni ne restano colpiti con pesanti ricadute a lungo termine. Ogni due secondi un bambino soprattutto nella fascia tropicale e subtropicale africana, muore per complicanze da malaria. Da poche settimane l’organizzazione mondiale della sanità ha autorizzato l’uso di un vaccino sui bambini di Ghana, Camerun e Burkina Faso. «Sono ottimista – conclude Moonen – perché stiamo riducendo i morti ogni anno, perché la ricerca va bene e perché disponiamo di una data-set in grado di calibrare sempre più le nostre azioni». 

 

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