diSara D’Ascenzo
Giovanni Montanaro, scrittore e avvocato: «Assurdo che non sia stato ripensato un regolamento per le locazioni turistiche»
«Qui, qui sostiamo! – Propizio augurio/ n’è questa croce, – n’è questo altar./ Ognun d’intorno – levi un tugurio/ fra quest’incanto – di cielo e mar». Come la fenice che sorge e risorge dalle sue ceneri, e come nell’Attila di Giuseppe Verdi, Venezia è un grande campo in cui le menti si esercitano a pensare e ripensare al futuro di una città nata fortunosamente dall’acqua e dall’acqua continuamente lambita, coltivata, minacciata. Tra le voci che si stanno levando in queste settimane sul futuro della città c’è quella di Giovanni Montanaro, veneziano, avvocato e scrittore. Il suo ultimo libro, Come una sirena, è pubblicato da Feltrinelli: «C’è molto pensiero su Venezia – conferma Montanaro – i veneziani si pensano e generano molti pensieri sulla città, ma fanno un po’ più fatica a trovare reali alternative. Non possiamo aspettare che sia qualcun altro a darci una prospettiva. Chi vive qui deve riuscire a far sentire la sua voce».
Montanaro, di cosa parliamo quando ci interroghiamo sul futuro di Venezia?
«Secondo me bisogna porre il tema della narrazione su Venezia. Fino agli anni ’30 e ‘40 del Novecento, Venezia era una città totalmente immersa nella contemporaneità. Da un certo punto di vista aveva un progetto, che è stato di fatto l’ultimo progetto su Venezia con Mestre. Venezia aveva ancora un gran numero abitanti, era il centro del Veneto e aveva al suo interno tre dei dieci uomini più ricchi e potenti d’Italia».
E poi?
«Col Dopoguerra la città è cambiata e ha cominciato a essere percepita come un problema. Nel ‘66 c’è stata l’Aqua granda e da allora la città non è più riuscita a pensare un progetto diverso, salvo qualche tentativo alla fine degli anni ‘90. Pensiamo per esempio a Marghera, che si traduce in una contraddizione lancinante, con migliaia di persone vissute grazie alle sue fabbriche, che però hanno portato anche inquinamento e morte. Contemporaneamente è cambiato anche il Veneto, che è diventata una delle regioni con più peso nel Paese, ma senza avere più un reale centro. Questo porta a non avere aree di reale conflittualità nel nostro territorio, certo, ma anche a farne una regione periferica. È indubbio che rispetto a trent’anni fa, Venezia e il Veneto contino meno. E che rispetto a dieci anni fa Venezia e Mestre stiano sicuramente peggio. Mestre per la diffusione della droga e degli spacciatori, Venezia per i turisti».
Dunque quale potrebbe essere il futuro di Venezia?
«Continuo a pensare che il futuro sia legato non solo a quello che è in sé la città, ma anche a tutto quello che ha intorno. Di cosa hanno bisogno Venezia e Mestre? Lo spopolamento c’è anche a Mestre. Dunque prima di tutto Mestre e Venezia hanno bisogno di attrarre persone e lavoro. Ma in quali direttrici? L’arte sta portando in città qualcosa di qualificato rispetto al turismo di massa, ma forse dobbiamo riuscire a guardare anche oltre, anche per la terraferma, per esempio guardando a cosa succede a Padova o a Treviso».
Il campanello è la questione casa.
«È una vergogna che non sia stato ancora fatto un regolamento per la locazione turistica. La possibilità di ripensare l’edilizia pubblica è un tema trasversale a tutte le città, da Barcellona a Lisbona e spesso Venezia anticipa fenomeni che poi puntualmente si verificano in altre città. In più qui c’è la questione logistica: per il tessuto che ha il Veneto, l’auto purtroppo è necessaria. E allora perché non stiamo pensando a realizzare nuovi parcheggi?»
Il luogo comune è che Venezia sia scomoda. Cosa potrebbe attrarre e convincere il mondo produttivo a trasferirsi?
«La vita di laguna, è quello il plus che dà Venezia, che è un lusso gigantesco. Ma va ripensata la mobilità pubblica e privata».
Che cosa pensa del contributo d’accesso?
«Mi sembra una misura abominevole nel concetto e mi pare anche – viste le tante esenzioni – di efficacia limitata. Una volta adottata, però, la destinazione degli incassi è decisiva. A Venezia non mancano i soldi, manca la prospettiva».
Quale pensa possa essere la prospettiva?
«Se quest’area – che non è solo Venezia ma il Veneto – ha bisogno di una città che abbia un peso, questa non può che essere Venezia. Poi rimettere la testa su Marghera, rimettere la testa nel progetto novecentesco delle aree di sviluppo. La Marittima è potenzialmente un luogo “esplosivo”, basta che non finisca come il Vega, dove ci hanno messo 25 anni per realizzare quelle infrastrutture e poi la gente ha paura a uscire la sera. Il mondo sta cambiando: c’è un grande insediamento di lavoro immateriale, ma devi poter disporre di un posto che sia raggiungibile dal Veneto, e quello è la Marittima, mentre credo meno all’Arsenale e a zone più periferiche. Ha più senso allora pensare a una parte di Venezia più protetta e a una parte più immersa nella modernità».
Chi può deciderlo?
«Probabilmente Venezia ha un futuro se diventa priorità politica».
Con l’Unesco il rapporto è complesso.
«Venezia resta una città che ha una visibilità internazionale, dalle potenzialità infinite, però finché ci raccontiamo che è così complessa, è difficile che la gente venga a viverci. Forse dovremmo fare anche noi lo sforzo di cambiare il linguaggio per Venezia. Se la parola d’ordine è stata fin qui salvaguardia, penso sia ora di ragionare su altre parole: sviluppo, futuro. Con la consapevolezza che Venezia è enormemente più grande di noi, non sarà mai travolta. Qui la qualità della vita è potenzialmente eccelsa, ma bisogna farlo capire. È vero che per viverci bisogna operare una forma di scelta, ma è una scelta che ti ripaga cento volte tanto e ti permette di vivere all’interno della natura, di conservare rapporti umani, in una città che è democratica per eccellenza, basta andare in vaporetto. Forse è arrivato il momento di percepirla e comunicarla non solo come un problema. Al contrario della logica del tornello, del ticket che ci fanno apparire come una città che ha paura di chi arriva. Venezia e la sua aerea metropolitana hanno la possibilità di essere una capitale, ma possiamo riequilibrarla solo se abbiamo più abitanti».
E il turismo?
«Le affittanze turistiche si possono limitare più con gli incentivi che non con i limiti. Ma se le leggi di locazione sono ferme al ‘78 e all’equo canone, se in un condominio non puoi fare un ufficio ma puoi fare affittanze turistiche il problema c’è. Certo poi sta anche ai veneziani decidere se affittare o no».
Intravede dei germogli?
«Sicuramente l’interesse sulle isole è molto importante; poi l’arte contemporanea, che ha portato investimenti notevoli in città, anche se qualcuno parla di colonizzazione. E progetti dal basso, come Serendipity Giudecca o altri acceleratori, tutti nati con l’obiettivo di ripopolare stabilmente la città, anche grazie all’home working. Fermenti positivi ci sono anche a Mestre, a partire da Via Piave».
Dopo il Covid com’è cambiata la città?
«È il primo posto in cui i veneti hanno sentito di poter venire dopo il lockdown e se ne sono riappropriati. Ma Venezia ha senso se quando tu hai un bambino e vivi, per dire, a Treviso, puoi portarlo a Venezia quasi come forma di pellegrinaggio: è un luogo che deve essere di tutti. Se ci fosse una nuova Legge Speciale, ma soprattutto 30mila residenti in più, servizi e negozi sarebbero diversi e non ci sarebbe bisogno di porre un limite al turismo».
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