C’è un fattore importante a distinguere la vigilia del voto europeo di oggi e domani dai suoi più immediati precedenti: invece di poter utilizzare soldi pubblici per misure che aiutano il consenso, Governo e maggioranza si sono trovati invischiati a pagare i conti del passato e costretti quindi a una serie di misure impopolari poi affannosamente contrastate dalle narrazioni sui 100 euro della Befana o sul taglio alle liste d’attesa in sanità.
Il 25 maggio del 2014 le urne delle Europee si aprirono poche ore prima del debutto in busta paga del bonus Renzi, 80 euro netti al mese per oltre 11 milioni di lavoratori dipendenti, introdotto il 24 aprile dal decreto 66: uno stanziamento di quasi 10 miliardi all’anno, finanziati all’inizio con spending review e rivalutazione delle quote Bankitalia e poi mantenuti anche ricorrendo all’extradeficit negoziato con Bruxelles. Impossibile misurare il peso di quel bonus sul voto, che comunque portò il Pd guidato dall’allora neopremier al 40,8% grazie a poco meno di 11,2 milioni di voti: livelli da cui poi i Dem si sono tenuti sempre molto lontani. Cinque anni dopo, l’appuntamento con le Europee arrivò il 26 maggio: da meno di due mesi erano in vigore le due misure bandiera del primo Governo Conte, il gialloverde, grazie al decreto 4 del 2019 che aveva diviso a metà i 14 miliardi all’anno previsti per finanziare il reddito di cittadinanza caro ai Cinque Stelle e Quota 100 voluta dalla Lega.
In quel caso fu proprio il Carroccio a volare al 34,26% con quasi 9,2 milioni di voti, altezze inedite prima e mai ripetute poi. E anche allora a dominare la scena fu il disavanzo, creato a sportellate con Bruxelles, anche se poi i saldi reali riuscirono a riportarlo all’1,6% del Pil voluto in origine dall’allora ministro dell’Economia Giovanni Tria e raggiunto grazie a stime iniziali molto larghe sulla spesa; perché altrove tenere i conti in ordine è un punto d’onore, da noi invece la maggioranza volle esibire il deficit come si fa coi muscoli.
I miliardi di spesa pubblica sono volati fitti anche negli ultimi mesi. Ma si è trattato di quelli già spesi, e in larga parte imprevisti, dal Superbonus pensato dal Governo Conte-2 e poi prorogato dall’Esecutivo Draghi, che ha fatto volare il deficit 2023 al 7,4% del Pil e ora ricade a botte di quasi 40 miliardi l’anno sul debito del 2024-26.
Più che a trovare fondi per rendere amichevoli le urne, quindi, in questi mesi al ministero dell’Economia guidato da Giancarlo Giorgetti si è dovuto lavorare a tappare le falle. Anche senza badare troppo alle ricadute in termini di consenso di scelte come lo stop al Superbonus, il freno alle pensioni anticipate e il taglio alle rivalutazioni degli assegni previdenziali. Una virtù necessitata dallo stato dei conti pubblici, che ha però alzato ostacoli insormontabili a misure di segno opposto: con molta fatica si è previsto un minibonus da 100 euro per i redditi fino a 15mila euro annui che tuttavia, contenuto peraltro in un decreto legislativo ancora lontano dalla Gazzetta Ufficiale, ha dovuto traslocare al 2025 per assenza di spazi finanziari quest’anno. E un altro trasloco, dal decreto al disegno di legge, è stato imposto per ragioni di costi a molte delle misure sulla sanità. Oggi, per la prima volta da tempo, i dati sui saldi di finanza pubblica vanno un po’ meglio del previsto, soprattutto sul lato entrate che ad aprile sono salite 4-5 miliardi sopra le previsioni del Governo; si tratta di almeno due decimali di Pil fondamentali per i prossimi passi del bilancio dello Stato. Ma nei seggi italiani in genere questo pare contare poco.
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