Case di comunità da costruirsi “implementando” gli studi delle medicine di gruppo, e magari utilizzando il personale del medico di famiglia? Secondo Enpam la scommessa è sostenibile: i medici di famiglia e i pediatri convenzionati con il servizio sanitario possono mettere in piedi case di comunità collegate alle circa mille già finanziate con i fondi del Piano di Ripresa e Resilienza. La Fondazione ha affidato ad un fondo immobiliare il compito di realizzare in tutto il territorio nazionale «studi professionali idonei per il lavoro in team, tra più professionisti, dotati di connettività efficiente per sviluppare progetti di telemedicina, trattare i fascicoli sanitari elettronici degli assistiti e persino sviluppare “app” di intelligenza artificiale, oltre che tecnologie specifiche per l’assistenza primaria». Il progetto “Case di comunità spoke” è stato presentato dal Presidente Enpam Alberto Oliveti al Ministero della salute, all’incontro organizzato dalla Società Italiana di Medicina generale e delle cure primarie dal titolo “Simg: l’evoluzione della medicina generale tra tecnologia, risorse, medicina di iniziativa, lavoro in team e ricerca”. «Ferma restando la natura individuale della relazione con il paziente ha ribadito Oliveti l’aggregazione tra medici porta a un maggiore appagamento professionale per i camici bianchi e a un’assistenza qualitativamente elevata per i cittadini». Autogestite dai medici di famiglia e dai pediatri convenzionati con il Ssn, spiega sul sito la Fondazione «le “case di comunità-spoke” mirano a posizionarsi come «collegamento di prossimità tra la casa del cittadino, intesa come il primo luogo di cura, e le Case di Comunità “hub” finanziate con i fondi del PNRR». Il fondo che realizzerà le case “spoke” le affiderà ai medici interessati ad operarvi, utilizzando le formule dell’affitto o del leasing.
La notizia suscita la reazione del sindacato Snami, da sempre contrario alle case di comunità: come altre sigle, teme che allontanino fisicamente il medico di famiglia dal suo assistito. Le vede più lontane fisicamente dalle case degli assistiti rispetto agli studi convenzionati oggi capillarmente diffusi sul territorio italiano, ma le vede anche costruite per sostituirli. In più il presidente Snami Angelo Testa, vede forte il rischio che anche la casa di comunità-spoke generi problemi ai professionisti. «Già i medici di medicina generale andranno controvoglia nelle case di comunità, le famose cattedrali nel deserto su cui neanche più il governo punta. E chi potrebbe essere uno dei loro principali investitori? Loro stessi!», afferma Testa. I medici, è il ragionamento, sovvenzionerebbero le case due volte. Primo, pagandole come contribuenti Enpam. Ma poi, «la tragedia diventerebbe una farsa se gli venisse chiesto di pagarsi un affitto per una casa costruita da loro stessi: oltre al danno la beffa!»
Doctor33 ha raccolto una prima replica in Fondazione. Da fonte interna e attendibile, si sottolinea come un conto sia la casa di comunità-hub prevista dal PNRR, una per distretto, che davvero rischia di allontanare il medico dall’assistito, e come altra cosa sia la casa di comunità-spoke, nata come risposta al medico intenzionato a lavorare in team con colleghi, medici specialisti, infermieri professionali, sempre vicino al suo paziente e “padrone in casa sua”. Per rendere sostenibile questa seconda possibilità, Enpam ricorre ad un Fondo di categoria, mettendo in circolo risorse che ritornano (non si tratta di investimento a fondo perduto) con un’operazione che peraltro non è tesa ad avere un ritorno in quanto Cassa di previdenza bensì ad attrezzare gli iscritti affinché continuino a sviluppare la loro attività convenzionata. Al canone di locazione, oggi spesso versato per lo studio “singolo”, si sostituirebbe semplicemente la quota di un canone “di gruppo” proposto al medico a condizioni accessibili.
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