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La vicenda inizia una decina di anni fa con l’inserimento nelle graduatorie e poi con l’assunzione a tempo indeterminato in un istituto superiore della provincia di Terni. Compilando le autocertificazioni, la professoressa “aveva dichiarato di non avere riportato condanne penali”. Circostanza che poi si è rivelata “non veritiera” e su cui è stata chiamata a pronunciarsi la Corte di cassazione.

Effettuando una serie di accertamenti, l’amministrazione scolastica aveva infatti evidenziato che a carico della prof esistevano due diverse sentenze di condanna: una emessa dalla Corte d’appello di Roma – divenuta irrevocabile nel 2006 – per omicidio colposo e un’altra del tribunale di Terni – divenuta irrevocabile nel 2008 – per resistenza a pubblico ufficiale continuata. Dati però che non sarebbero stati “dichiarati in sede di sottoscrizione del contratto individuale di lavoro”. Da qui il licenziamento in tronco contro il quale la docente aveva però presentato ricorso, respinto sia in primo grado dal tribunale di Terni che in secondo grado dalla Corte d’appello di Perugia nel 2019.

E proprio contro queste sentenze, la professoressa ha proposto ricorso di fronte ai giudici di Cassazione.

“La corte di merito – scrivono nell’ordinanza i giudici nell’ordinanza pubblicata qualche giorno fa dalla Cassazione – osservava che nel contratto individuale sottoscritto dalla (…) era prevista la risoluzione del rapporto di lavoro a seguito dell’accertamento della non veridicità del contenuto delle dichiarazioni sostitutive di certificazione, ivi comprese quelle effettuate in sede di reclutamento”. La corte fa riferimento all’articolo 95 del contratto nazionale di lavoro del 2007 che prevede “il licenziamento senza preavviso per l’ipotesi di impiego conseguito mediante produzione di documenti falsi e, comunque, con mezzi fraudolenti”. E, confermando quanto deciso nei primi due gradi di giudizio, la Cassazione ribadisce che “non poteva darsi rilievo, inoltre, alla tesi difensiva della ricorrente fondata sulla buona fede posto che (…) dichiarava testualmente di non aver riportato condanne penali iscritte nel casellario giudiziario, né serviva (ancora) addurre che i reati si erano estinti, in quanto la ricorrente doveva dichiarare il dato storico dell’avvenuta condanna penale, a prescindere da cosa fosse accaduto in seguito”.

A ragione di questo, dunque, “la risoluzione del contratto di lavoro a tempo indeterminato non era

dipesa dalla natura dei reati accertati, ma era stata disposta in quanto le dichiarazioni, rese in violazione di specifica clausola contenuta nel contratto individuale, avevano alterato il quadro conoscitivo dell’amministrazione (…) mettendo in discussione lealtà e buona fede del dipendente e la correttezza dei futuri adempimenti, in guisa da denotare una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di correttezza e buona fede”.

Ricorso respinto, dunque, e condanna per la professoressa anche al pagamento delle spese di giudizio, pari a 3.500 euro oltre al versamento “dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso”.

 

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