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di Giuseppe Varvaro

L’occhio del rapporto annuale Istat, presentato a Montecitorio il 15 maggio 2024, scorge la sete italiana di investimenti aziendali, ma non le carenze delle dinamiche economiche per finanziarli. L’analisi (pp. 38,60) constata negli ultimi 24 anni la scarsità degli investimenti delle imprese italiane nel settore dei beni immateriali rispetto alle tre grandi economie di Francia, Germania e Spagna. E però non emerge l’attuale crisi nazionale del nesso vitale tra politiche di investimenti e finanziarie. Sempre più le banche – nei loro prestiti di 600 mld di € alle imprese, anche per investimenti – sollevano dubbi sulla capacità dell’azienda di sostenere le operazioni del credito e impongono condizioni più stringenti sui prestiti, o non li concedono affatto.

In Italia il finanziamento bancario, rispetto a quello del mercato della borsa, è cruciale – come ebbe a notare un rapporto Unicredit del 2010 – per le numerosissime piccole imprese, date le loro caratteristiche di maggior opacità informative e rischio relativamente più elevato di fallimento. Attualmente il trend di contrazione dello stock di prestiti bancari alle imprese si è portato, su base annua, a marzo 2024 a -4,6%, mentre a luglio scorso era a -5,7%. Tali dati elaborati nei monitoraggi di Unimpresa hanno spinto pochi giorni fa la stessa confederazione di categoria a invocare misure di sostegno.

Ciò mentre sul versante della qualità dell’ambiente imprenditoriale GEM 2023/24 ha appena assegnato alle politiche governative italiane in campo di fisco e burocrazia il basso punteggio di 3,9 (su scala da 1 a 10), all’interno dell’indice composto NECI (di 4,5). Le statistiche evidenziano luci e ombre tra investimenti attesi e realizzati. Nella recente indagine EY-SWG 2024 le imprese esprimono, in maggioranza, il proposito di investimenti nel prossimo biennio, sulla scia del rapporto Istat 2022, in cui avevano manifestato una crescente valutazione strategica verso gli investimenti intangibili (R&S, etc…).

Nondimeno sul piano concreto, secondo lo scorso rapporto Istat 2023, le imprese italiane hanno incrementato investimenti nella R&S, in risposta a politiche di sostegno con incremento di incentivi fiscali, ma in parallelo hanno rallentato gli investimenti fissi per addetto nel manifatturiero, in assenza di incentivi fiscali. Ricerche straniere sul tema delle politiche aziendali e finanziarie hanno indagato il ruolo cruciale della prassi contabile. E’ stato così reso di palmare evidenza la sensibilità del mercato creditizio a bilanci aziendali allineati ai principi contabili dello standard di reporting finanziario internazionale, IFRS, imposto dalle direttive EU per talune imprese.

Simmer di Lima, Franco de Lima e Gotti, in Effects of the Adoption of IFRS on the Credit Market, hanno associato i benefici dell’IFRS a: costo inferiore del credito, scadenza più lunga, prestiti più grandi, minore domanda di garanzie. L’adozione dell’IFRS implica qualità informativa e comparabilità. Quest’ultima – secondo Singleton-Green, in The effects of mandatory IFRS adoption in the EU -, da un lato, riduce costi, tempi e asimmetrie di accesso alle informazioni, incertezza e rischio per chi finanzia, e, dall’altro, accresce valutazione delle opportunità, liquidità del mercato, appetibilità dei finanziatori esteri.

Bertrand, Brebisson e Buriet – a seguito della loro indagine Why choosing IFRS? Benefits of voluntary adoption – hanno concluso che l’adozione volontaria dell’IFRS aiuta le imprese private a ridurre la loro opacità, e quindi aumenta l’accesso al debito. Si può anche dire che l’orizzonte sui cambiamenti economici del Paese si scruta nella struttura dei bilanci aziendali?

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