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L’aggressione russa all’Ucraina ha rappresentato un punto di svolta per la sicurezza europea e ha indotto l’Ue e i suoi Stati membri a compiere dei passi importanti nel campo della difesa. I Ventisette hanno deciso di utilizzare finanziamenti comuni per dotare il governo ucraino di armi e munizioni attraverso il Fondo europeo per la pace per un totale di 11,1 miliardi di euro.

In un contesto generale europeo caratterizzato da una decisa inversione della tradizionale tendenza a decurtare i budget della difesa nazionali, la Germania ha stanziato altri 100 miliardi di euro per il suo bilancio della difesa, la Danimarca ha aderito alla Politica di sicurezza e di difesa comune (Psdc) e la Finlandia e la Svezia sono entrate nella Nato, anche se Orbán ha provato a mettersi di traverso. I tempi sembrano essere maturi per decisioni coraggiose sulla difesa europea, che dovrebbe anche prendere in considerazione una riforma dell’architettura istituzionale e delle disposizioni esistenti nei Trattati. Il modello per il quadro istituzionale intergovernativo dovrebbe essere quello di una struttura nazionale, che ha un decisore politico (il ministro), una leadership militare (il capo di stato maggiore della Difesa) e un responsabile degli approvvigionamenti e dello sviluppo delle capacità (il direttore nazionale degli armamenti). Tutte queste figure hanno le loro strutture di supporto e sono soggette a vincoli politici da parte di organismi eletti (governi e Parlamenti).

Questo modello dovrebbe, ovviamente, essere adattato, con gli opportuni aggiustamenti, al formato Ue. Superando i meccanismi informali che già esistono, si potrebbero fare i passi necessari per la creazione di un Consiglio dei ministri della Difesa formalizzato, presieduto dall’Alto rappresentante, che potrebbe svolgere un ruolo analogo a quello di ogni ministro della Difesa, fornendo una guida strategica e prendendo decisioni chiave sulla politica di difesa. Il Comitato militare dell’Ue potrebbe funzionare come un capo di stato maggiore della Difesa nazionale, mentre l’Agenzia europea per la Difesa potrebbe svolgere il ruolo di sovrintendenza sugli armamenti. Infine, la Commissione europea dovrebbe realizzare un mercato europeo della difesa aperto e competitivo attraverso un commissario dedicato, mentre una vera e propria Commissione per la Difesa nel Parlamento europeo potrebbe esercitare un’adeguata supervisione politica e democratica sullo sviluppo delle capacità e sulle missioni.

Servono poi risorse adeguate, che non possono limitarsi ai circa 8 miliardi del Fondo europeo per la difesa, ma devono contemplare nuove forme di finanziamento pubblico e partenariati con il settore privato. Sempre di più, prende corpo l’idea di attivare forme di debito comune in questo ambito, sotto forma di Eurobonds della difesa, e di reperire nuovi fondi coinvolgendo la Banca europea per gli investimenti, che per ora non può invece, da statuto, finanziare progetti che abbiano implicazioni militari o di difesa.

Alcune delle riforme enunciate potrebbero essere attivate già da subito con un accordo tra Stati membri e istituzioni, mentre una riforma complessiva della governance europea della difesa richiede una difficile riforma dei Trattati. Tuttavia, è arrivato il tempo delle scelte e solo un’Unione più efficace a livello internazionale sarà in grado di rispondere alle aspettative dei suoi cittadini.

Il Trattato sull’Unione europea (artt. 24 e 42 TUE) considera correttamente la politica di sicurezza e di difesa comune, compresa la graduale definizione di una difesa comune, come parte integrante della politica estera e di sicurezza comune. Una futura Unione europea della difesa non può infatti essere disgiunta da una politica estera e di sicurezza comune funzionante. Ciò richiede, come minimo, una revisione delle disposizioni esistenti, con un ampliamento dei poteri dell’Alto rappresentante/vicepresidente della Commissione europea e un rafforzamento delle forme di coordinamento differenziato tra gli Stati membri, al fine di consentire all’Ue di mettere concretamente in atto le iniziative politiche delle istituzioni comuni e di quei Paesi che sono disposti a (e in grado di) agire su questioni chiave di politica estera.

Azioni efficaci e tempestive sono state finora ostacolate anche dalle disposizioni del Trattato (artt. 31 e 42 TUE) che prescrivono l’unanimità come regola decisionale nel campo della politica estera, di sicurezza e di difesa. Purtroppo, l’unanimità ha portato molto spesso a risposte tardive o non ottimali a crisi e conflitti, dal Nord Africa ai Balcani e non solo. Per questo motivo, si registra una crescente pressione da parte del Parlamento europeo e della Commissione europea, ma anche da parte di importanti Stati membri, per estendere l’applicazione del voto a maggioranza qualificata a settori chiave della politica estera e di sicurezza, ad esempio le sanzioni e le missioni civili. Forse è troppo ambizioso proporre l’adozione del voto a maggioranza qualificata anche per le decisioni che hanno implicazioni militari o di difesa, visti gli interessi in gioco a livello nazionale. Tuttavia, potrebbe valere la pena di esplorare delle forme di voto a maggioranza qualificata rafforzata o la possibilità per uno Stato membro di astenersi senza impedire l’adozione di una decisione.

Inoltre, se vogliamo costruire un’Unione europea della difesa, dobbiamo garantire la responsabilità democratica delle decisioni in ambito militare e di difesa. Questo non può essere fatto attraverso il solo controllo parlamentare sui governi a livello nazionale, ma richiede il rafforzamento dei poteri di informazione e consultazione del Parlamento europeo come previsto dall’art. 36 del TUE. Il potere più efficace del Parlamento europeo, quello di bilancio, dovrebbe essere esteso anche alle questioni militari e di difesa. Ciò significa includere nel bilancio comune le spese operative delle missioni militari, attualmente vietate dal Trattato (art. 41 TUE). Una riforma di questo tipo favorirebbe anche una ripartizione degli oneri più equa ed equilibrata tra gli Stati membri.

Da quando la politica di sicurezza e di difesa comune dell’Ue è diventata operativa nei primi anni Duemila, abbiamo imparato che l’impossibilità di finanziare le operazioni militari e di difesa attraverso il bilancio comune implica che gli Stati membri più attivi, quelli che partecipano alle missioni dell’Ue con uomini e mezzi, siano anche quelli che pagano di più, per il principio secondo cui “costs lie where they fall”. Inoltre, l’art. 41 rappresenta di fatto un ostacolo alla cooperazione civile-militare, poiché le missioni civili e militari sono finanziate secondo procedure diverse.

L’auspicabile obiettivo finale è che l’Ue sia in grado di rispondere in modo tempestivo ed efficace a conflitti e crisi, anche nel continente europeo. Tuttavia, cambiare le regole attraverso una modifica dei Trattati, soprattutto in un campo delicato come quello della difesa, non è un’impresa facile. Una riforma del Trattato è però inevitabile se gli Stati membri europei vogliono seriamente costruire un’Unione europea della difesa e dotare l’Ue della forza militare necessaria per proteggere i suoi cittadini, fornire ai suoi vicini adeguate garanzie di sicurezza ed esercitare una deterrenza credibile contro i suoi potenziali avversari.

Questo è un estratto di “L’Europa matura” di Nicoletta Pirozzi, edito da Linkiesta Books. In libreria dal 31 maggio, ma già disponibile qui

 

 

 

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