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A Bolzano, 262 metri sul livello del mare circondati dai monti, d’estate fa un caldo infernale. L’Europa matrigna e il Recovery Plan ci sono anche per il sollievo dei suoi cittadini trilingue: quest’anno al Lido ci saranno nuovi scivoli acquatici, campi per il beach volley e il calcetto. «L’Europa ha fatto una motagna di debito per finanziare il Pnrr», diceva qualche settimana fa Giancarlo Giorgetti davanti a una platea di euroscettici. Spesso dimentichiamo che dei 194 miliardi stanziati dall’Unione per il primo grande esperimento di debito comune l’Italia ne ha presi 122 in prestito. E però finita la sbornia dei bonus edilizi, per dare una spinta all’economia al governo non è rimasto che questo. Se le banche d’affari consigliano ancora ai clienti di comprare debito italiano, è perché la flebile crescita del 2024 e del 2025 – circa l’un per cento – sarà garantita soprattutto dal più grande investimento pubblico dai tempi del generale Marshall.

L’ultima relazione semestrale del governo Meloni – risale a metà febbraio – dice che l’Italia ha speso fin qui 45 miliardi degli oltre cento incassati. Una tabella della Corte dei Conti ci dice che le voci più in ritardo perché più lente da realizzare sono infrastrutture e trasporti, mentre abbiamo attinto tutto il possibile per le assunzioni nel settore pubblico. Se la Giustizia farà passi avanti, lo dovrà probabilmente a questo. Per spendere fino in fondo il resto abbiamo a disposizione poco più di due anni, sempre che l’Unione non conceda la proroga che Giorgetti invoca un giorno sì e l’altro pure.

Fatta questa doverosa premessa, è venuto il momento di guardare alla qualità della spesa che – nonostante gli aggiustamenti voluti dal ministro delegato Raffaele Fitto – come è tradizione in Italia finisce in mille rivoli. Sulla carta interventi tutti nobili, non sempre indispensabili. Fondi – va precisato – in parte direttamente finanziati dall’Europa, in altri dal contribuente italiano, ma in attuazione di obiettivi stabiliti dal Piano. Per averne conferma basta scorrere le tabelle del sito Italia Domani e le notizie di agenzia. Nell’ultima settimana la ministra Eugenia Roccella ha rivendicato i quattro milioni di euro per la certificazione delle attività di genere. Il vicesindaco di Torino i fondi per gli spazi dedicati al dialogo fra i popoli. A Palermo grazie al Pnrr nasceranno quattordici start up di comunità. Pescia pistoiese ha a disposizione dieci milioni di euro per il rifacimento del mercato dei fiori. Ci sono fondi destinati alla sistemazione dei bastioni attorno al castello di Ivrea, la riqualificazione del centro di Casale Monferrato, la chiesa del Divino Amore dentro al parco romano di Villa Ada. Un bando del ministero della Cultura sta mettendo a disposizione duecentomila euro per il recupero del tessuto economico-produttivo dei borghi abbandonati. All’ultima assemblea di Federalberghi la senatrice di Fratelli d’Italia Susanna Campione ricordava ai balneari inferociti il nuovo fondo rotativo da 780 milioni per i loro investimenti. In questo caso non finanziato con fondi europei, ma in gran parte della Cassa depositi e prestiti. E però è grazie ad uno degli obiettivi previsti dal Recovery Plan se il fondo nasce: dettaglio non banale per quella parte della politica che ha costruito le fortune sull’antieuropeismo. Questa settimana uno dei suoi più alti rappresentanti – il senatore leghista Claudio Borghi – ha proposto di eliminare l’obbligo di issare la bandiera europea a fianco di quella italiana nei palazzi pubblici. «Se l’Europa gli fa così schifo dica agli italiani di rinunciare ai duecento miliardi del Pnrr», gli ha risposto Dario Nardella. Il sindaco uscente di Firenze a quei fondi ha dovuto in parte rinunciare per via della decisione di Bruxelles di tagliare il sostegno all’ammodernamento dello stadio.

A valle di quella polemica Fitto ha penato non poco per tagliare i dieci miliardi – quasi tutti dei Comuni – che con gli obiettivi del Pnrr avevano poco a che fare. Per sedare la rabbia dei sindaci, il ministro degli Affari europei si è dovuto improvvisare Houdini per recuperare i fondi dal bacino della Coesione, ovvero i sussidi ordinari dell’Unione per gli investimenti al Sud. Il lavoro non è finito, al punto che gli esperti di Openpolis, l’organizzazione indipendente più attiva nel monitoraggio del Pnrr, non ha ancora capito cosa è ancora finanziato dal Recovery Plan e cosa è transitato nell’altra pentola di fondi. Le cronache confermano in ogni caso che quelli europei restano di gran lunga la voce principale di spesa per il governo Meloni. Alla ricostruzione della Romagna devastata dalle alluvioni sono andati 1,2 miliardi. Cinquantasette milioni serviranno per l’ormai nota nuova diga di Genova, c’è mezzo miliardo a disposizione delle start up dell’intelligenza artificiale, un altro miliardo andrà alla realizzazione degli impianti agrofotovoltaici, quelli che evitano il consumo del suolo. Last but not least, ci sono i tredici miliardi per l’efficentamento energetico delle case, meglio noti come superbonus edilizi. Con buona pace del contribuente tedesco.


 

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